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Il case management e la psichiatria

Il modello del Case Management nasce circa una ventina di anni fa nei paesi anglosassoni, dove si è sviluppata una politica di Community Care, ovvero le politiche sociali sono orientate all’assistenza decentrata sul territorio.
Questa può essere vista, in negativo, come una reazione alle vecchie politiche di istituzionalizzazione degli utenti, proprie del XX secolo, mentre, in positivo, con questo orientamento perdono forza e sostanza molte delle discussioni ed idee che sono state centrali nelle politiche dei servizi sociali dalla seconda metà del XX secolo.
Attualmente in Italia tale modello organizzativo sta, in modo preponderante, entrando a far parte del mondo sanitario, soprattutto i psichiatria.
All’interno del Piano Socio Sanitario Regionale della Lombardia 2002-2004 e in maniera più approfondita nel Piano Regionale per la Salute Mentale, viene data grande valorizzazione alla figura del Case Manager in relazione al Piano Terapeutico Individuale (PTI).(vedi nota 1)
Quanto enunciato fin ora non è altro che un buon auspicio del miglioramento del lavoro in psichiatria, soprattutto in relazione al perseguimento dello sviluppo di una Psichiatria di Comunità.
Ciò che preoccupa però è l’attuazione ed il recepimento di tale orientamento per le figure professionali che non posseggono un sub-strato culturale per poterle introiettare ed attuare con una modalità corretta e coerente. A questo va aggiunto che, professionisti come gli Assistenti Sociali, non vengono valutati e ritenuti la figura professionale che storicamente ha fatto del Case Management il suo ambito lavorativo.
Nello specifico si sottolinea che la Community Care ha posto il Case Manager al centro dei propri obiettivi. Nella pratica quotidiana ciò significa richiedere agli Assistenti Sociali un impiego efficace delle risorse.
Gli assistenti sociali costituiscono un elemento significativo della Community Care poiché svolgono tre importanti funzioni (come indicato da Barclay):
– CASE MANAGEMENT, gli assistenti sociali aiutano i loro assistiti a chiarire i loro bisogni e a mettere insieme ed usare efficacemente le loro risorse personali e quelle di cui dispone la comunità per andare incontro a tali necessità.
– COMMUNITY SOCIAL WORK: gli assistenti sociali aiutano a sviluppare le risorse comunitarie affinché poi ce ne siano maggiormente a disposizione per chi ne ha bisogno.
– SERVIZIO SOCIALE DI TIPO RIPARATIVO: gli assistenti sociali aiutano gli assistiti e le persone a loro vicine ad affrontare i loro problemi e le loro difficoltà personali, affinché possano migliorare la compromessa qualità della loro vita, con una ricaduta positiva sulla loro famiglia, sulla comunità e sulla vita sociale.
Altre categorie professionali possono condividere questo tipo di lavoro con gli assistenti sociali, ma solo questi ultimi sono inseriti in una rete di servizi e professioni di aiuto. Le loro capacità vengono condivise con quelle di altri servizi ed altre figure professionali, nonché con quelle che la gente comune esercita nel corso della vita quotidiana. Tuttavia a causa della loro formazione, esperienza, specializzazione, si trovano ad esercitare le tre funzioni della Community Care con un’intensità particolare. Essi sono nella posizione ideale per aiutare i loro assistiti e i loro colleghi a trarre il meglio sia delle risorse della comunità, sia quando si riferiscono al sistema pubblico di welfare.
La prima funzione del servizio sociale nell’ambito delle politiche di Community Care, il Case Management, collega ad altre due funzioni: l’aspetto individuale del counsellig e l’aspetto incentrato sulla comunità del Social Care Planning. Si tratta di un modo di organizzare l’intervento di aiuto che cerca di integrare la progettazione dei servizi ed il loro sviluppo con i bisogni individuali. Questo è basato su procedure di valutazione (assessment) che rappresentano un fondamento importante delle attività del servizio sociale. L’esperienza degli assistenti sociali, la loro profonda consapevolezza dei servizi e la loro formazione socialmente orientata suggeriscono che la loro professionalità è da ritenersi particolarmente preziosa per il Case Management. Il loro ruolo professionale nei servizi sociali territoriali, gli enti pubblici a cui è principalmente affidata l’attuazione della politica di Community Care, li farà sempre considerare come principali esperti nell’attuazione del Case Management, anche laddove tale attuazione venga affidata a un’équipe multiprofessionale o veda comunque coinvolte figure professionali provenienti da ambiti differenti.
Attualmente gli assistenti sociali operanti in regione Lombardia stanno vedendo la loro peculiarità professionale parcellizzata ed attribuita ad altre figure professionali di tipo sanitario. Negli ultimi tempi sono “fioriti” articoli di varia entità e di vario genere a proposito de “l’infermiere case manager”. Nulla da obiettare, a parte il fatto che da questi scritti sono una sorta di riassunto di ciò che è a fondamento di un corso di laurea come quello in Servizio Sociale. Sono evidenziati gli argomenti principali dei testi che gli assistenti sociali debbono imparare e far propri nella pratica quotidiana del loro lavoro. Gli stessi autori di tali articoli sono persone che hanno ricevuto una formazione parziale e frettolosa, non hanno di certo conseguito una laurea che dà nozioni specifiche, approfondite e a trecentosessanta gradi su tale argomento.
Questo non potrebbe altro che far onore. Una professione tanto discussa e tanto raffigurata in modo erroneo (proprio di recente è partita una raccolta firme da inviare al Consiglio Nazionale per proteggere l’immagine degli assistenti sociali) che viene presa ad esempio dalle altre. Unico neo è che gli assistenti sociali operanti in Regione Lombardia, nelle Unità Operative di Psichiatria, si vedono proporre dalle rispettive Aziende Ospedaliere2 dei corsi di aggiornamento obbligatori (cosiddetti poiché le Aziende sono tenute ad organizzarli al fine del conseguimento degli ECM da parte delle figure sanitarie) sul Case Management tenuti da infermieri. Ciò preoccupa principalmente per il fatto che nessuno degli operatori che lavorano in psichiatria sono davvero e ragionevolmente formati rispetto al modello di Community Care. Pochi conoscono la traduzione letterale di Case Manager, ma qualcun altro ha già iniziato a contattare i Servizi Sociali comunali per chiedere l’attivazione di una borsa lavoro, nell’ottica di attivazione delle risorse, senza interpellare l’assistente sociale del proprio servizio.
Impressionante è infine che si stiano diffondendo master universitari che vogliono formare professionisti attraverso la nuova “figura professionale” del Case Manager (basta navigare in internet e digitare “case management”che qualsiasi motore di ricerca vi troverà corsi di ogni genere, tipo e costo).
Potranno sembrare affascinanti questi corsi e, potrà anche essere molto gratificante fare il “relatore per caso”di un argomento così innovativo per un sistema di servizi così unico e diverso da quello anglosassone. Ma l’unica vera soluzione per l’applicazione della Community Care è il dialogo tra i differenti operatori che compongono l’équipe multidisciplinare che insieme lavora sul caso, con un Case Manager che faccia da connettore tra i diversi interventi necessari, senza che alcun operatore possa agire andando oltre la propria competenza professionale.

[nota 1: DAL PSSR 2002-2004 REGIONE LOMBARDIA: Indirizzi La chiave di volta consiste nell’identificare elementi di piano che non riguardino solo l’organizzazione dei servizi o le strutture, ma che diano indicazioni sui progetti da attuarsi a livello clinico – operativo: verificato e completato l’assetto organizzativo, occorre ora dedicarsi ai programmi di trattamento, ai percorsi di diagnosi e terapia, ai processi clinici, alla relazione con la persona malata tutelando i suoi diritti di cittadino. Primo obiettivo da perseguire è lo sviluppo di una psichiatria di comunità che operi in un contesto ricco di risorse e di offerte, in un territorio concepito come un insieme funzionale ampio, non rigidamente delimitato, con la possibilità di integrare diversi servizi, sanitari e sociali, pubblici, privati e non profit, e di collaborare con la rete informale presente, in una reale apertura alla società civile. I DSM debbono proporsi una duplice missione: di garantire la libertà di scelta della cura da parte degli utenti e di assicurare nel contempo il trattamento dei pazienti gravi (presa in carico).
Un compito che può assolversi attraverso azioni che implementino interventi su due assi, con fini e metodi ben distinti:
a) favorire il libero contratto tra l’operatore professionale e il soggetto come portatore di domanda di cura,
b) offrire accoglimento ai bisogni complessi del paziente grave e fornire gli idonei trattamenti integrati. Progetti Ne discende l’esplicitazione di progetti differenti, programmando e attivando percorsi di cura e assistenza, anche nell’interazione tra soggetti diversi, e valutandone esiti e risultati. In generale è opportuno prevedere l’aggiornamento di protocolli operativi che definiscano le modalità di accesso al servizio specialistico e regolino i rapporti tra i servizi psichiatrici accreditati e i Medici di Medicina Generale, perno fondamentale del sistema.
In particolare le tipologie di tali percorsi si possono così esemplificare:
• La consulenza: Coinvolgere i MMG nella stesura di protocolli o procedure minime (modalità d’invio, filtro, restituzione, follow-up, urgenze) nell’ambito dei percorsi diagnostico-terapeutici: a tal fine dovranno essere concordate modalità organizzative per il trattamento dei disturbi mentali lievi, che potranno essere trattati dal MMG con la consulenza dello specialista del servizio psichiatrico accreditato, e sviluppati progetti di intervento integrati con la Medicina Generale sulle patologie depressive.
• L’assunzione in cura. Introdurre metodi o procedure atte a valorizzare la domanda e la contrattualità nella relazione utente – operatore e a differenziare i percorsi di cura; identificare strumenti di controllo della qualità con l’obiettivo di valutare l’adeguatezza dei servizi e di verificare l’appropriatezza degli interventi erogati e gli esiti raggiunti; realizzare protocolli che promuovano la partnership con gli utenti.
• Il trattamento integrato dei disturbi mentali gravi (“presa in carico”): situazioni che presentano una rilevante sintomatologia clinica, associata a problemi di rilievo sociale e/o disabilità, per le quali deve essere assicurata la gestione e il trattamento terapeutico e riabilitativo personalizzato da parte dei servizi psichiatrici territoriali, che predisporranno in modo appropriato, con le necessarie integrazioni sociali, le risorse assistenziali e terapeutiche adeguate alla complessità dei casi. A questo livello si può ad es.: definire linee guida o protocolli professionali che descrivano le modalità operative della presa in carico ed individuino criteri e limiti della continuità terapeutica; intraprendere iniziative trasversali pubblico-privato, in tema di percorsi riabilitativi, residenziali e non, cooperando con l’imprenditoria sociale ed eventualmente collegandole a forme sperimentali di finanziamento sulla persona; coinvolgere l’area non profit in progetti tesi al recupero dei “persi di vista”; lavorare con le famiglie e sviluppare collaborazioni tra servizi psichiatrici e realtà non istituzionali (associazioni, rete informale).

DAL PIANO REGIONALE SALUTE MENTALE: Il Piano di Trattamento Individuale (PTI), strumento operativo della presa in carico, avrà i seguenti requisiti:
– indicazioni delle motivazioni psicosociali che hanno evidenziato la necessità di una presa in carico;
– tipologia delle prestazioni erogate dall’équipe, nell’ambito delle funzioni sopra indicate:
→ trattamento psichiatrico e psicologico;
→ iniziative volte a garantire un supporto assistenziale (iniziative volte al recupero di cittadinanza” nel proprio contesto socioambientale, visite domiciliari, attività di supporto sociale, lavoro di rete);
→ iniziative riabilitative (programmi di Centro Diurno, inserimenti lavorativi, iniziative volte a incrementare i livelli di autonomia)
→ iniziative volte a sostenere e coinvolgere nel progetto di cura i familiari del paziente;
→ attivazione e monitoraggio di trattamenti di tipo residenziale o semiresidenziale;
→ verifiche periodiche dell’andamento del progetto;
→ composizione della microéquipe titolare del progetto;
→ individuazione del referente complessivo del progetto ( case manager), che, all’interno di una relazione significativa con il paziente, assume una funzione specifica di monitoraggio del progetto nella sua attuazione.]

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