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Essere madri in carcere

L’evento carcerazione apporta numerose modifiche all’interno di un nucleo famigliare, intervenendo non solo sugli equilibri relazionali, ma anche sulle condizioni sociali ed economiche, riflettendosi conseguentemente sullo sviluppo del minore. Spesso la realtà di molte madri detenute è segnata da precarietà lavorativa, esperienze di tossicodipendenza o ancora dalla preesistente appartenenza a famiglie disgregate o inserite in gruppi socialmente marginali.
L’incidenza ridotta della carcerazione femminile ha però indotto allo scarso interesse riguardo a questo fenomeno. Molti problemi specifici, legati a questa condizione, non sono stati osservati ne affrontati.
Se in passato la detenuta madre era vista come “amorale” e non in grado di crescere adeguatamente il proprio figlio, oggi la visione è mutata. La normativa dell’Ordinamento Penitenziario ha affermato quanto sia centrale la figura materna nello sviluppo del bambino, permettendo alla detenuta, di poter continuare ad assistere alla sua crescita.
La legge ha infatti previsto la possibilità di tenere con sé il minore fino al terzo anno di età, dopo il quale viene affidato a parenti, istituti oppure famiglie disposte ad accoglierlo, nell’attesa che la madre termini il periodo di pena.
L’articolo 11 dell’Ordinamento Penitenziario, prevede che ogni struttura di pena organizzi speciali servizi per l’assistenza sanitaria alle gestanti. Così come l’art. 19 del Regolamento di Esecuzione del 2000, rubricato “Assistenza particolare alle gestanti e alle madri. Asili nido”, prevede che la struttura sia concepita con camere aperte, per consentire il libero spostamento, nonché favorire l’organizzazione di attività ricreative e formative per i bambini. È prevista anche la possibilità per le madri di uscire all’esterno per attività.
Dall’altro lato, però, le strutture carcerarie non sono state modificate in vista della presenza di bambini, se non per ciò che concerne poche realtà territoriali.
Lo sviluppo di un rapporto madre-bambino, però, riscontra non poche difficoltà all’interno di un contesto carcerario. La donna è spesso sottoposta all’ansia di far avvertire il meno possibile al figlio quella che è la ristrettezza del luogo. Alcune arrivano a privarsi delle visite concesse proprio per non far vivere al piccolo un’esperienza traumatica. La stessa decisione di tenere o meno con sé il figlio durante la detenzione, si rivela estremamente difficile, specialmente nel periodo successivo all’arresto. Questo momento è spesso segnato dalla sensazione di sbagliare, ponendosi al limite tra il desiderio egoistico di stare con il bambino, anche se in un contesto deprivante, oppure affidarlo a terzi facendosi accompagnare dalla paura che un giorno non si ricordi più di lei. In ogni caso l’Amministrazione Penitenziaria ha il compito di verificare l’idoneità della madre prima di concederle il beneficio.
Vige la necessità che, durante questa fase delicata, la donna venga sostenuta da figure professionali adeguate, al fine di riflettere consapevolmente e con responsabilità.
Il minore stesso, inoltre, deve essere sostenuto nell’affrontare l’impatto con un luogo che non somiglia affatto a quello della vita quotidiana.
Entrambi devono essere accompagnati in questo processo di interazione, che subisce inevitabilmente pressioni e cambiamenti. Bisogna, infatti, porre un’attenzione particolare allo sviluppo di rapporti non equilibrati, dovuti ad atteggiamenti iper-protettivi, così come al possibile verificarsi di scompensi sul piano relazionale ed emozionale.
Con la legge n. 40 del 2001, recante “Misure alternative alla detenzione e tutela del rapporto detenute e figli minori”, si è cercato di promuovere come principio ispiratore quello della decarcerazione per le situazioni in cui esiste un valido rapporto madre-figlio, senza però produrre risultati considerevoli, per il fatto che per molte detenute vi è il rischio di recidiva. Sia l’inadeguatezza degli asili nido interni alle strutture di pena, che la scarsa applicazione della suddetta legge hanno visto una crescita degli aiuti provenienti da associazioni del privato sociale nonché da strutture residenziali.
Queste partecipazioni sono orientare a migliorare le risposte verso le numerose difficoltà che devono affrontare ogni giorno le detenute madri e i loro bambini, poiché le esigenze umane e naturali derivanti da questo rapporto, costituiscono un diritto che non può essere limitato, nemmeno dietro le sbarre.
Il problema della maternità in carcere dovrebbe essere affrontato attraverso l’attuazione di nuovi interventi e alleanze, ma anche con un lavoro di rete efficace che veda la collaborazione delle famiglie, dell’amministrazione penitenziaria e del privato sociale, al fine di valorizzare l’individualità della persona e la crescita corretta di un rapporto che nella vita rimane quello essenziale.

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