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L’assistenza alla famiglia del detenuto: oltre la teoria criminologica del Labelling Approach

Il mondo del crimine ha sempre generato un crescente interesse all’interno della collettività, la quale si pone interrogativi circa il fatto che ha costituito reato, ma anche del soggetto che l’ha commesso. Ciascuno di noi ha bisogno di comprendere queste situazioni, così come la famiglia del reo.
Il mondo carcerario raffigura una sorta di “universo parallelo”, dove sono racchiusi gli orrori del mondo, da cui la società vuole proteggersi.
Al di fuori però, come sostengono Verde e Barbieri, vi sono “coloro che non hanno commesso nessun delitto, se non quello di amare una persona che lo ha compiuto, coloro che soffrono una pena pari a chi è in prigione, senza essere mai stati condannati”, ovvero i figli, i compagni e i famigliari.
La società odierna, molte volte, non è in grado di considerare la persona singola per ciò che realmente è, ma la definisce in funzione del suo mondo sociale e famigliare.
Qui si vuole sottolineare come si possa assistere ad un ampliamento del labelling approach, cioè della teoria criminologica dell’etichettamento. Questa si colloca nelle teorie sociologiche della devianza e focalizza l’attenzione sul processo di costruzione del criminale, favorito dalla reazione della collettività e delle istituzioni. Attraverso l’assegnazione dell’etichetta criminale, si innescherebbe un processo perverso in grado di trasformare l’autore vero (o presunto) di un singolo reato in un delinquente cronico.
Su questo processo influirebbero molte variabili, caratterizzate sia dalla disistima della collettività, ma anche dall’esclusione che le istituzioni, come le carceri, provocano. Mc Laughlin e Muncie sostengono che l’etichettamento produrrebbe gravi conseguenze a livello di rappresentazione sociale, di auto percezione e di opportunità. Secondo questa visione la c.d. “condotta deviante” non è necessariamente quella criminale, ma concerne ogni tipo di comportamento che possa produrre una reazione sociale negativa. Nessun atto quindi, è di per sé deviante, ma è l’etichetta che lo rende tale e la società affronta ciò tramite atteggiamenti di esclusione e condanna. Tali messaggi negativi vengono interiorizzati dal soggetto confermandogli la convinzione di essere davvero ciò che gli altri definiscono.
Lo stigma, nel caso della detenzione, non influisce solamente nella vita del reo, ma agisce anche nei confronti dei famigliari.
Gli studi sociologici e criminologici hanno dimostrato che l’esperienza di carcerazione di un genitore costituisce un fattore criminogenetico per il figlio.
Con ciò non si vuole affermare che tutti i figli di detenuti siano delinquenti, ma che hanno più probabilità di agire comportamenti devianti se non adeguatamente sostenuti da basi motivazionali forti.
Se dall’interno di un penitenziario si soffre per la mancanza di contatti con i propri cari e si fanno i conti con la coscienza personale, al di fuori ci si sente impotenti e si subisce il peso dei giudizi negativi.
Bisogna segnalare che nella maggior parte dei casi la famiglia di un carcerato è parte delle nuove povertà, poiché calata in situazioni particolari di bisogno, da difficoltà economiche ed esistenziali. Nei casi più gravi, i famigliari del reo, faticano a mantenere l’alloggio, trovare lavoro, mandare i figli a scuola o affrontare le spese ordinarie.
Poche volte emerge un grido di aiuto, necessario per far comprendere alla società come i famigliari del reo, vengano isolati e stigmatizzati, come se fossero loro un pericolo reale.
Pare comprensibile per la società porsi in ottica difensiva riguardo all’orrore generato dal fatto-reato, ma non può essere giustificato il rifiuto verso innocenti che non hanno violato una norma legislativa.
L’ordinamento giudiziario sancisce sostegno e aiuti ai famigliari del detenuto, tralasciando però l’ampio raggio di difficoltà legate alla considerazione e all’integrazione sociale.
Ciò a cui si auspica non sono solamente aiuti materiali ed economici, ma anche l’attivazione propositiva delle istituzioni affinchè possano sensibilizzare la società di fronte a questa tematica.
Lo stesso impegno deve valere, in ambito macro, per le politiche sociali e, in ambito più ristretto per tutti gli Assistenti Sociali, operatori del volontariato ed associazioni che posseggono gli strumenti necessari per intervenire intelligentemente su un territorio che si sta rivelando sempre più asettico ed impaurito di fronte alle difficoltà di molte persone che non posseggono colpa.

BIBLIOGRAFIA
A. VERDE, C. BARBIERI, Narrative del male. Dalla fiction alla vita, dalla vita alla fiction, Franco Angeli, 2010
E. MC LAUGHLIN, J. MUNCIE, The sage dictionary of criminology, SAGE, 2006
M. STRANO, Manuale di criminologia clinica, SEE Editrice, Firenze, 2003

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