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Aiuto ed emozioni

“Tu chiamale se vuoi, emozioni” recitava una volta una canzone di Lucio Battisti. Ma che cos’è l’emozione, se non lo “stato d’animo” che influenza ogni nostro comportamento? Si tratta di sentimenti che riguardano ogni tipo di relazione, anche quella dell’aiuto. Nel counseling di servizio sociale, oltre al “problema ufficiale” e al “sistema relazionale” (tra l’helper-esperto ed il richiedente aiuto – inesperto), ci sono i sentimenti. Questi, beninteso, non ce l’ha solo chi chiede aiuto, ma anche l’assistente sociale: sta però a quest’ultimo governare il gioco dei “detti” e dei “non detti” (e le emozioni lo sono). Tutto ciò va però inserito in un contesto sociale dove la comunicazione sana delle proprie emozioni non è una norma: siccome l’assistente sociale è invece un professionista del benessere, il parlare con lui deve significare la possibilità (ed il dovere) di agire le proprie emozioni nel modo più consono possibile al volersi bene (e volerne agli altri). L’equazione è: regole + consapevolezza.

E’ indubbio il fatto che oggi, in Italia più che altrove, viviamo una sorta di “analfabetismo emozionale”. Se una volta i rapporti esistevano su di una base formale (la vecchia “buona educazione”), oggi paradossalmente è come se non ci fossero più regole al “come” rapportarsi con l’altro. Se l’emozione è una reazione interna al rapporto sociale, questa va prima riconosciuta e poi gestita, ben sapendo che questa va dopo a tradursi nel “come” si approccia chi ci sta innanzi. Saper gestire le proprie emozioni è una competenza appresa, è però necessario che avvenga un “fatto educativo” nella propria crescita: ciò dovrebb’essere la norma, ma non diamolo mai per scontato. Basta guardarsi attorno: una volta un’anziana in difficoltà suscitava emozioni protettive (per cui la si aiutava, le si cedeva il posto sull’autobus, la si ascoltava sulle sue storie passate), ora ella suscita invece indifferenza, se non fastidio. Ma anche il rapporto uomo-donna ne ha risentito: passare da un “corteggiamento graduale” ad un “approccio sessuoorientato” significa bypassare tutto il quadro emozionale necessario a che due persone possano diventare “amanti”. E’ una questione di valori che hanno modificato le capacità emotive delle persone.

La stessa pratica del servizio sociale non consiste solo in una “dazione prestazionale”, né in uno sterile processo metodologico: essa si rifà comunque ad un rapporto tra due persone, le quali si “prendono” o meno anche e specialmente sul piano emozionale. Entrare in un ufficio da un assistente sociale vuol dire spesso “tararsi” emozionalmente in un certo modo. Tale taratura richiama il concetto di primacy, in base al quale il “primo impatto” crea
uno schema mentale che influenza fortemente tutta la relazione di là a venire. Attenzione quindi al primo colloquio: è là che avviene il primo (e spesso definitivo) scambio emozionale. Dico “scambio” perchè questo è reciproco: emozioni come antipatia, ribrezzo, fiducia ed accoglenza si tarano specialmente la prima volta. Cambiarle dopo è difficile!

La codifica delle emozioni parte dal setting: avere un contesto aperto o chiuso (tavolo o scrivania?), avere un arredamento di un certo tipo (frasi al muro, quadri, crocifisso o poster), vestirsi in un certo modo (attenzione ai messaggi sessuali, seppur involontari) significa già suscitare delle emozioni senza neanche aver aperto bocca. Il resto lo fa logicamente il colloquio, cosa diciamo, come lo diciamo, a che fine lo diciamo, fino a che punto impersoniamo il potere, ma anche e specialmente SE e COME ascoltiamo. Spesso chi viene da un assistente sociale porta con sé un groviglio di emozioni che va accolto si, ma con un ascolto attivo. Dato per scontato che si stacchi il telefono, si evitino accessi “da ufficio” e che non ci siano altri in stanza: è davvero il caso che ci si sintonizzi sull’interlocutore secondo le tecniche del counseling sociale. E’ spesso sull’ascolto attivo, caldo, partecipato e condito da feedback che l’interlocutore va in sintonia emozionale con l’helper. Non dimentichiamo mai che l’empatia è appunto la capacità di comprendere appieno lo stato d’animo altrui; se l’aiuto è empatico per definizione, esso non può che essere emozionale.

L’educazione emozionale è quindi non solo una modalità, ma l’oggetto stesso del lavoro dell’assistente sociale. Prendere coscienza delle proprie emozioni, addestrare al fatto che certe cose vanno fatte emozionalmente, che proprio i blocchi emozionali a volte inficiano una sana comunicazione, questi sono tutti obiettivi che possono essere posti in un processo di aiuto. Gestire le proprie emozioni, dicevo prima, è una competenza “alta” che si apprende fin dall’infanzia. Chi non la apprende (e sono tanti…) struttura la propria personalità, e di conseguenza la capacità di interagire con l’altro, in una maniera asettica, non-emozionale, spesso basata sul mero tornaconto personale. Di conseguenza l’incapacità a riconoscere e comprendere le emozioni altrui causano estreme difficoltà a gestirle poi nella vita, col partner, con i figli, con gli altri e con se stessi.

Addestrare alla “regola” è il primo passo: certi comportamenti sono “dovuti” ed un gerto governo emozionale idem, occorre ribadirlo sempre. Il livello successivo è quello della consapevolezza, la quale deriva però da una scelta personale. In ciò non esistono corsi o manuali, bensì – da che mondo è mondo – l’influenzamento sociale. Se le agenzie primarie hanno fallito (le famiglie e la scuola, se c’erano secondo la loro vera mission), sono le agenzie secondarie ad avere un ruolo di influenzamento possibile: dai circoli partitici ai bar, dalle parrocchie alla vecchia “vita di piazza”, sono lì che gli imprinting emozionali possono venir influenzati. Nel campo del servizio sociale professionale c’è il vecchio (e sempre più attuale) lavoro di gruppo: è nelle dinamiche dell’auto-mutuo aiuto che le emozioni escono, vengono comunicate, influenzate e modificate.

Nella mia attuale esperienza di auto-mutuo aiuto nel campo delle coppie vedo che è proprio l’espressione emozionale ad essere il collante esperenziale tra le persone. Non c’è l’esperto (al massimo mi definisco un “facilitatore”), ma ci sono “gli esperti”, ovvero ognuno esplicita le proprie emozioni, le quali vengono colte e restituite attraverso le varie esperienze. Le persone cambiano, in fin dei conti, quando maturano, e ciò non è solo un fatto personale, bensì “comunitario”. Le emozioni di essere maschio o femmina, le emozioni di sentirsi padre o madre, le emozioni di sentirsi amanti e compagni, si imparano comparando le proprie storie di vita a quelle degli altri. Ricostruire queste “palestre” (che una volta erano le famiglie allargate o le comunità vive) affinchè impariamo a gestire al meglio le emozioni della nostra vita, è o non è un compito del servizio sociale? Io caparbiamente ribadisco il mio “si”.

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