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Il servizio sociale tra senso comune e senso scientifico

Rispondo alla sollecitazione di Marianna Lenarduzzi e offro alcune considerazioni in merito al tema “formazione continua” degli assistenti sociali.
Tale innovazione non pare aver considerevolmente influito sui discorsi della professione connotati da una configurazione già rilevata e fonte di criticità (Colaianni e Ciardiello 2088; 2012; Zielli 2010; Lorenz e Trivellato, in Facchini 2010) circa la prevalenza, nello spazio discorsivo professionale, di modalità di mero senso comune e quindi una scarsa adeguatezza e terzietà dei giudizi espressi nel merito in virtù dell’assenza di elementi di senso scientifico.
Brevemente, per argomentare si considereranno tali aspetti: qual è l’obiettivo della formazione continua? In virtù di cosa è adeguato parlare di “continuità” della formazione?
La formazione, in modo differente dall’istruzione o dall’aggiornamento, mira a permettere al formando di collocarsi in uno specifico ruolo ed è obiettivo che la formazione universitaria persegue (altra cosa è se attualmente lo raggiunga). È corretto allora ritenere che, una volta conclusasi tale formazione, il soggetto “formato” si collochi di per sé in tale ruolo?
Quanto offre la sociologia dell’organizzazione ci mette in grado di asserire che circa un ruolo professionale, quanto meno sia definito tale ruolo – ed è il caso del servizio sociale, come si vedrà più avanti – tanto più si giocano in continuazione due possibilità per l’individuo che si collochi in una matrice organizzativa:
è possibile definirsi in virtù dell’identità personale (e ciò comporta la magnificazione dell’esperienza e delle capacità, dei profili di “personalità”, delle “qualità personali”, di obiettivi virtuali generati da teorie personali – sapere, fare, essere);
oppure è possibile collocarsi in virtù dell’identità di ruolo (e quindi delle competenze, di obiettivi terzi condivisibili, di teorie scientificamente fondate e del sapere, del saper fare e del saper essere).
La conclusione del percorso formativo (e dell’abilitazione) non garantisce pertanto di per sé una collocazione “automatica” del professionista nell’identità di ruolo una volta per tutte, ma tale collocazione va reiterata ogni giorno, ogni minuto, direi, in quanto il senso comune – in cui ci si trova immersi in servizi che praticano modalità essenzialmente discorsive – ha una potenza attrattiva che solo la continua collocazione nell’identità di ruolo e quindi il richiamo continuo all’obiettivo generale e operativo del servizio sociale e la scelta di paradigmi e di strategie ad essi adeguati può permettere di evitare; in sintesi, il continuo esercizio e incremento delle competenze (queste guardano al presente e al futuro), piuttosto che delle capacità (guardano al passato, sono le routines) mette in grado il professionista di gestire in modo efficace ed efficiente interventi che devono dare risposta a quesiti cognitivi e non ad adempimenti meramente procedurali; infatti le “competenze” si definiscono come “tutto quanto permette di anticipare scenari che ancora non sono dati ma che si possono generare in un determinato contesto”, permettono cioè di anticipare le possibilità di evoluzione di una specifica situazione.
La “continuità” della formazione – e in particolare della supervisione come consulenza formativa – pertanto risponde a tale richiesta continua di collocarsi e ricollocarsi nell’identità di ruolo rendendo tale processo più agile e pronto, sia per gli aspetti che riguardano il cliente esterno (l’utente), sia per gli aspetti relati al cliente interno (altri operatori, matrice organizzativa, architettura dei servizi). Come sopra detto, ciò è possibile se si tengono gli occhi fermi sull’obiettivo generale e su quello operativo che la prassi mira a trasformare in risultato (si dà prassi solo se c’è teoria, altrimenti è mera pratica e rimanda al senso comune) nella misura in cui questi siano definiti e resi condivisibili..
É dunque strategico, una volta definito l’obiettivo che la formazione continua – in qualunque ambito – si pone, disporre di una definizione condivisa dell’obiettivo generale e di quello operativo del servizio sociale. Porsi tale domanda, la cui risposta potrebbe ritenersi apparentemente pleonastica e ovvia, non genera risposte pronte e univoche e quindi condivisibili; ciò è riscontrabile nelle risposte ai protocolli che vengono somministrati all’inizio dei corsi sull’assessment e il counselling sociale che il sottoscritto organizza e conduce, nella ricerca (Colaianni 2004), ma anche in molti testi accademici e in alcuni dei testi offerti dai ruoli che rappresentano la professione dal punto di vista ordinistico. Si veda a quest’ultimo riguardo – l’editoriale che l’attuale Presidente del CNOAS ha di recente dedicato alla formazione continua (27 luglio u.s.) in cui l’impegno nella formazione continua è reso necessario dal “fatto di avere come interesse specifico quello della tutela e dell’esigibilità dei diritti di persone e comunità”, un fatto che “rappresenta senz’altro un onore ma anche un onere significativo in ordine alla necessità di mantenere livelli di qualità adeguati ai tempi ed alla complessità della materia”.
Si consideri, al riguardo, che la tutela e l’esigibilità dei diritti di persone e comunità, oltre a non rivestire carattere di specifico né esclusivo interesse dell’assistente sociale, non sono definibili come “obiettivi”, bensì come una strategia che dovrebbe mirare a realizzare l’obiettivo generale del servizio sociale secondo quanto enunciato nel testo della IFSW del 2000, definito in modo più soddisfacente rispetto a quello del 2014 circa il merito della nostra argomentazione:

“La sua mission è abilitare tutte le persone a sviluppare il proprio pieno potenziale, arricchire le loro vite e prevenire le disfunzioni. Il servizio sociale professionale è focalizzato sulla soluzione dei problemi e sul cambiamento. Così, gli assistenti sociali sono agenti di cambiamento nella società e nelle vite degli individui, delle famiglie e delle comunità di cui sono al servizio”.
Le conseguenze di tale considerazione sono rilevanti; nel primo caso – posta l’inadeguatezza e la fallacia del confondere una strategia con un obiettivo – la “tutela dei diritti” rimanda a un ruolo di advocacy (e quindi a una attività) che non è specifica ed esclusiva della professione: come elemento etico, ciò è compito di chiunque svolga un ruolo professionale – sia nel pubblico, sia nel privato _– di un medico, non meno di un funzionario amministrativo, di un magistrato non meno di un appartenente alle forze dell’ordine e di un assistente sociale.

Se si tratta invece di un aspetto pertinente la professione, ciò è specifico dell’avvocatura e delle autority dedicate a specifici ambiti tematici. Insomma, tale enunciato non indica una competenza esclusiva della professione su cui definire la propria mission; in tal senso, si configurerebbe una sorta di ruolo di “avvocati dei poveri” senza per altro averne le prerogative, né le potestà di rappresentanza esclusiva degli interessi (vedi Gui: “Servizio sociale trifocale” 2008);
nel secondo caso, invece, si apre la prospettiva professionale nella piena autonomia di giudizio (si è in grado di argomentare in modo “terzo” quanto si attesta nell’assessment e nel parere professionale) verso competenze esclusive, caratterizzate dalla dimensione biografica degli interventi (“agenti di cambiamento nella società e nelle vite degli individui”) e dalla promozione delle competenze degli individui e nelle comunità (“abilitare tutte le persone a sviluppare il proprio pieno potenziale”), tanto che alcuni la definiscono la professione “delle possibilità”. Tale definizione dell’obiettivo appare terzo e coerente e adeguato allo sviluppo di strategie che mirino a generare una cittadinanza “competente” anche per la difesa dei propri diritti e il loro esercizio.
In termini di formazione, il testo enunciato nel documento della Presidente del CNOAS contemplerebbe meri elementi giuridici e di scienza della politica, senza per altro offrire specifici strumenti (gli a.s. non patrocinano cause); il testo offerto dall’IFSW identifica obiettivi generali che necessitano di teorie che generino ricadute applicabili (prassi) in grado di produrre cambiamenti biografici dell’utenza e nella comunità locale.
Se quanto esposto è condivisibile, ragionare di formazione continua secondo teorie meramente personali, quali pervadono le opinioni che spesso si leggono, è del tutto improprio; che la si “giudichi” un onere o un’occasione, essa risponde ai criteri di incremento dell’efficacia e dell’efficienza dell’intervento professionale e dell’apporto all’organizzazione in cui la professione viene esercitata o all’architettura più complessiva dei servizi (con cui anche chi svolge la professione libera si rapporta), per cui le domande da porsi anche rispetto all’offerta formativa attuale non sono: mi piace? É onerosa? Devo farla? É simpatico il formatore?, ma: è efficace? É adeguata e congruente con gli obiettivi generali e operativi della professione? Quanto offerto è spendibile in senso applicativo? Quali competenze è in grado di generare o incrementare?
Questo è quanto richiede un lavoro che si collochi tra le professioni, se si vuole essere al livello della sfida, non più di quanto sia richiesto in termini di innovazione anche a mestieri meramente tecnici: qualificarsi per il prodotto offerto e che il cittadino possa apprezzare riconoscendone l’utilità e l’efficacia, e non solo per la “tutela” che l’essere inseriti in un sistema istituzionale offre al professionista (chi svolge la professione libera fa i conti con tale criticità in prima persona), oppure adagiarsi nell’alveo del senso comune e non del senso scientifico, andando incontro a una probabile progressiva irrilevanza della professione, di cui già si avvertono i segni, e alla sua conseguente obsolescenza.

Per chi volesse continuare il dibattito su questo tema:
http://forum.assistentisociali.org/formazione-continua-news-vt8159.html

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