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Non è una magia – La fiducia nel lavoro sociale

La fiducia, nelle professioni d’aiuto, è fondamentale e deve essere reciproca. La identifico con la certezza della persona che qualsiasi azione ed affermazione del professionista dell’aiuto sia volta al suo bene, nel senso più lato ed in tutte le sfumature che il benessere può assumere. Questo non sta a significare che egli non ponga obiezioni o chieda spiegazioni, ma che esse siano volte alla comprensione delle motivazioni e non mosse dal sospetto.

Credo sia impossibile lavorare bene ed ottenere feedback e risultati positivi senza fiducia. Lavorando con persone provenienti dal continente africano, mi sono sempre scontrata con un’iniziale sfiducia in me, in quanto “bianca”, donna e, ai loro occhi, in una posizione di potere. Inoltre, le persone in situazioni di grave disagio sono spesso caratterizzate da una sfiducia di base, verso le istituzioni, la società, il cambiamento, sé stessi e la vita in generale.

La barriera culturale gioca spesso brutti scherzi che possono compromettere il rapporto fiduciario: ad esempio, nella cultura musulmana, per le funzioni fisiologiche umane si utilizza categoricamente la mano sinistra, mentre la destra è riservata al saluto, al mangiare, alle interazioni interpersonali in genere; per cui, se si ha a che fare con persone non ancora pienamente consapevoli ed abituate alla cultura occidentale, può capitare che interpretino, ad esempio, il passar loro un oggetto con la sinistra come una fortissima mancanza di rispetto, esasperata dalla situazione stressante in cui si trovano.

Nella mia opinione, relativamente alla relazione d’aiuto, fidarsi non significa e non deve significare lasciare a qualcuno parte del nostro destino, bensì lasciare che ci accompagni e supporti nella creazione e modificazione di esso.

Seppure si firmi un vero e proprio contratto, il patto che definisce ruoli, scadenze, obblighi e regole non ha utilità alcuna se non supportato dalla fiducia che esso sia propedeutico al proprio bene: lo stesso atto di firmare è un gesto di fiducia ed infatti non è sempre semplice si verifichi senza che l’operatore ricorra ad un aut-aut, poiché quella contrattuale è una delle prime fasi del processo d’aiuto ed il professionista ha avuto poche occasioni di farsi conoscere e guadagnarsi la stima.

Ma come nasce la fiducia? E’ sicuramente definibile “magica” per quanto rende la relazione efficiente, ma non è una magia e per crearla bisogna attivare innumerevoli strumenti e risorse.

Nella mia esperienza, per evitare proteste e risentimenti quando si invita una persona ad agire in un determinato modo, serve un po’ di tempo perché questo non avvenga per paura delle punizioni o reverenziale timore, ma perché essa ha speranza nei risultati positivi così ottenibili. Ovviamente sono moltissimi i fattori che vanno ad influire, per cui può capitare che il rapporto fiduciario scatti automaticamente alla prima occasione di contatto, per un piccolo gesto che infonde la sensazione di essere accolti ed aiutati, così come possono volerci mesi e mesi; mi duole affermare che spesso non accade affatto.

Le regole burocratiche, se non totalmente arbitrarie e/o lesive, seppur possano risultare “fastidiose”, sono facilmente armonizzabili con l’esperienza pratica basata sull’unicità della persona: basta spiegarne le motivazioni ed i vantaggi invece di imporle, con un linguaggio ed un atteggiamento calibrato sulla persona che abbiamo di fronte ed il suo background e carattere, puntando su argomentazioni che sappiamo essere di sua comprensione, interesse e convenienza. Ovviamente, anche perché questo funzioni, è fondamentale che alla base ci sia un rapporto di fiducia, ma, circolarmente, riuscire ad impostare il relativo colloquio nel modo più consono all’individuo che abbiamo davanti genera un senso di comprensione e cura che la crea o rinforza.

Mi appare doveroso, anche in riferimento al nostro Codice Deontologico, sollevare obiezioni riguardo imposizioni arbitrarie di persone che hanno un ruolo di maggiore responsabilità, ma non hanno mai lavorato con quel tipo di utenza, né sono debitamente formate, né ci si interfacciano per più di qualche minuto. Ritengo però fondamentale chiedersi se sia necessario, al fine di compensare ingiuste coercizioni, valutate sulla base di manuali, legislazione e confronto con altri professionisti con più esperienza, onde evitare gravi ripercussioni emotive se non psicologiche.

Se le regole sono giuste e ben calibrate sul contesto, non è necessario trasgredirle per guadagnare benevolenza ed evitare ribellioni, anzi è deleterio e mina la stima che le persone a cui è destinato l’intervento d’aiuto hanno di noi; crea inoltre in essa l’illusione di poter ottenere altre agevolazioni non consone, il che potrebbe portare a perdere il controllo sulla situazione o deluderle non concedendole. Seppure sul momento sembri rendere più semplice il nostro lavoro, lo sconsiglio: ritengo più opportuno chiedere a chi di dovere le motivazioni di tale norma; se non dovessero essere valutate valide, si può proporne una modifica ben ragionata da valutare in equipe. In caso ci si trovi a dover trasgredirle per motivi deontologici, è quindi di fondamentale importanza premettere che si tratti di un’eccezione, dovuta alla particolarità della situazione.

Purtroppo, per coordinare, più che la scarsità del monte ore, il sovraccarico di mansioni con le effettive esigenze delle persone, talvolta si è costretti a ricorrere a straordinari non pagati o “portare il lavoro a casa”, senza ovviamente renderle consapevoli di ciò, al fine di evitare eccessive richieste e soprattutto un rapporto di dipendenza. Se ci si dota del personale previsto, se esso è competente, responsabile ed efficace (e, perché lo sia, devono esserci le basi caratteriali e di formazione e deve venire adeguatamente gratificato, supervisionato e retribuito), se si sa selezionare le priorità, se il lavoro è ben organizzato e così via, è difficile ci sia tutto questo scarto fra il tempo necessario e quello a disposizione, nonostante la dinamicità della nostra professione: si tratta di una tipologia di lavoro che richiede creatività e continue rivalutazioni ed aggiustamenti, ma nulla è imprevedibile, poiché non deve essere lasciato al caso, per cui tutto si può evitare in via preventiva o gestire nel rispetto dei tempi professionali.

In ogni caso, se ad esempio ci si trova costretti a dover rimandare o interrompere un colloquio, ma si è sempre stati puntuali, presenti e disponibili e lo si fa con il giusto tatto, nella mia esperienza le persone dimostrano spesso una grande empatia nei confronti dell’operatore: ancora una volta, la fiducia aiuta a far filare liscio anche l’”imprevisto” e gestire debitamente la situazione genera o rafforza fiducia, in un circolo positivo che è la più grande soddisfazione di cui un professionista del sociale possa godere ma anche la più grande spinta verso l’empowerment che qualcuno possa ricevere.

E’ fondamentale che l’individuo acquisti o rafforzi la fiducia e consapevolezza anche di sé, ed è per questo che bisogna, a mio avviso, accogliere ogni domanda o richiesta di spiegazioni, per quanto possa sembrare banale o inutile ai nostri occhi, così da validare la sua individualità e volontà; allo stesso tempo faccio di tutto per guidare il colloquio sui punti fondamentali, senza lasciare spazio a lamentele sterili. divagazioni e ripetizioni non funzionali; questo anche per non cadere in un atteggiamento pietistico e meramente assistenzialistico e riconoscere alla persona dignità ed autonomia.

ll primo incontro e l’accoglienza sono importantissimi per uno sviluppo positivo dell’intervento: come nella vita privata, volenti o nolenti, spesso basta una prima impressione negativa per compromettere fortemente l’idea che il prossimo ha di noi. Quando le persone si sentono ben accolte, soprattutto se non abituate a questo, si porteranno sicuramente a lungo una certa sensazione di base che ci siamo per loro e lavoriamo per il loro benessere, nel senso più lato.

Una delle caratteristiche fondamentali per un’efficace comunicazione, negli ambiti in cui ho avuto il piacere di lavorare, è sicuramente l’atteggiamento non giudicante: il giudizio è altamente temuto da coloro che provengono da culture o estrazioni sociali a cui non siamo abituati, che spesso non vengono viste di buon occhio dai più. Purtroppo, se non si è abbastanza informati su dinamiche lontane dalla nostra quotidianità, è facile cadere nel giudizio.

Di estrema rilevanza è anche l’attenzione alla comunicazione non verbale e paraverbale: se anche una persona non si sentisse ancora a proprio agio a rivelare particolari dolorosi e scomodi della propria storia, o a non nasconderli con piccole bugie, il suo stesso silenzio può dirci molto. Spesso, tutto quello che abbiamo da valutare sono il tono di voce, lo sguardo, la prossemica etc; inoltre la barriera linguistica rende ancora più necessario evitare di interpretare male i segni non verbali. Perché questo sia possibile, però, bisogna conoscere bene la cultura di appartenenza e fare le proprie valutazioni sulla base di essa, o si rischia di stravolgere i significati.

Personalmente, cerco sempre di informarmi da autodidatta e di fare domande a riguardo ai diretti interessati. Ritengo inoltre che dovrebbe essere obbligatoria la conoscenza base di almeno un’altra lingua per lavorare con persone straniere, soprattutto nei primi stadi dell’accoglienza; ciò non toglie che la figura del mediatore sia di enorme importanza ed utilità e dovrebbe essere maggiormente impiegata e valorizzata.

Le parole, e non solo nel Lavoro Sociale, hanno un enorme peso: lo stesso concetto, espresso con termini diversi, può essere offensivo o gratificante, può venire accolto o ripudiato e così via. Per capirci: dire <<Non è importante>> è molto diverso dal dire <<Capisco quanto sia importante per te, ma penso che ora sia meglio focalizzarsi prima su quest’altra cosa, perché…>>; dire <<Devi>> genera reazioni molto diverse dal dire <<Ci conviene se…>>.

Quando sento persone, e soprattutto professionisti, usare senza ironia epiteti come “tossici”, “vecchi” o “profughi” sinceramente mi si accappona la pelle e provate a immaginare come si possa sentire chi si riconosce in tali appellativi: come si possono fidare di chi attribuisce loro etichette negative?

Prestare attenzione agli altri, e a ciò che per l’altro è importante, è imprescindibile per la professione sociale, ma questo non significa affatto che la loro vita dipenda dalla nostra attenzione e non siano in grado di badare a sé stessi: si rischia così di caricarsi di una responsabilità insostenibile, emotivamente e psicologicamente, e decisamente deleteria; porta a vedere gli altri come beneficiari passivi dei nostri interventi, che per fortuna è un’ottica superata molti decenni fa, in nome di un accompagnamento e sostegno all’autonomia che è poi l’obiettivo del Social Work.

Spesso mi è capitato di perdere momentaneamente la fiducia di una persona che accompagnavo nel suo percorso sociale, solitamente quando non sono riuscita a garantire ciò che da progetto, contratto o da manuale gli spettava, per via di decisioni dall’alto o scarsità di mezzi e strumenti a mia disposizione. Questa è la situazione più difficile in cui un operatore può incorrere ed anche la più frequente: deve dimostrare un’enorme competenza relazionale e professionale, provando a cambiare la situazione rivolgendosi a chi di dovere, spiegando la propria eventuale impossibilità di cambiare le cose senza apparire impotente o scaricare responsabilità, ed allo stesso tempo giustificando eventuali negligenze o errori altrui, per non esacerbare la sfiducia nelle istituzioni e nella vita in genere.

Talvolta la fiducia vacilla per via di eccessive concessioni e atteggiamenti troppo confidenziali ed amichevoli dei colleghi, che fanno poi apparire chi mantiene un approccio professionale come “cattivo”: qui si ritorna sulle capacità di spiegare le motivazioni oggettive dietro le regole; soprattutto si evidenzia l’importanza di lavorare in equipe con linee comuni e procedure condivise, con un continuo confronto volto a perfezionarle, senza prendere nulla sul personale. Assume forte rilevanza la supervisione e soprattutto il rapporto di fiducia anche con i colleghi, che implica si dia per assodato che ogni osservazione non sia un giudizio o un tentativo di prevaricare l’altro, ma di rendere il lavoro di tutti più semplice ed efficiente.

La fiducia, in sé stessi e nel prossimo, risulta quindi essere imprescindibilmente necessaria per la riuscita, sia nel tentativo di uscire da una situazione di disagio, sia nella professione. “C’è qualcosa di magico quando una persona guida la macchina e tutti gli altri sognano con le loro vite affidate alla sua mano ferma, qualcosa di nobile, qualcosa di antico nella sua umanità, una sorta di antica magia” – Jack Kerouack
Che sia la fiducia?

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