L’assistente sociale apicale (1° parte)
L’identità dell’assistente sociale “apicale” (intendendo per questo il coordinatore o il dirigente) è un processo in divenire e più difficilmente un dato acquisito sul quale sviluppare (ed investire) in prospettiva; ciò rappresenta un grosso fattore di debolezza, tanto più se consideriamo che le realtà lavorative oggi impongono invece un confronto ed una concorrenza con professioni storicamente forti anche dal punto di vista delle competenze di “governo di sistema”, dai sociologi ai giuristi, passando per i laureati più disparati. Se sul versante formativo abbiamo fin dal 1999 il cosiddetto “3+2”, in quello lavorativo siamo ahimè fermi al “3”. E’ infatti successo che, se l’Università sforna due diversi profili, quello di base e quello specialistico, cui corrispondono diverse profili competenziali (rispettivamente al secondo e al primo comma dell’art. 21 del DPR 328 del 2001, a disciplina delle sezioni B ed A dell’Albo), il Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro prevedono invece ancor oggi il solo assistente sociale di base.
Il fatto che i laureati magistrali non avessero possibilità di lavoro per Norma io personalmente l’ho posto come problema basilare in questi anni, anche (e specialmente) stando in un Sindacato, ma avendo scarso riscontro: probabilmente è prevalsa la spinta della maggioranza dei colleghi, in sezione B in prevalenza, a lasciare tutto come sta. Finanche con la tanto auspicata “laurea a ciclo unico”, su cui lo stesso Ordine Professionale si è speso, feci notare l’inopportunità di questa “visione miope” con una lettera aperta all’Ordine stesso, ma senza alcun riscontro da parte di nessuno. Se interessa, il testo della lettera aperta è ancora leggibile, si clicchi qui.
La questione è assai triste: da una parte la professione ha tanto lottato per avere un assistente sociale apicale, le attuali rappresentanze invece lo affossano di fatto. Mentre nel frattempo il mondo del lavoro cerca manager sociali (dai direttori di servizio ai dirigenti di cooperative e case di riposo), in carenza di una Normativa sui profili sociali ancora sballottata tra Stato e Regioni, le posizioni si aprono a tutti i laureati magistrali (dallo psicologo al laureato in scienze politiche), ma non a noi. La beffa in tutto ciò è che la nostra professione nell’insieme neanche se lo pone il problema. Mi chiedo quindi a cosa serve fare una laurea magistrale ed un esame di stato apposito se non c’è un accesso al lavoro. La questione diventa poi paradossale col fatto che, sempre più, gli stessi curricula accademici si svuotano dagli insegnamenti manageriali, offrendo nel biennio un replay del percorso triennale.
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