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L’Ape Operatrice

“Come l’ape
che troppo miele ha bottinato,
voglio mani che si tendono”
F. Nietzsche: Così parlò Zarathustra

Il convegno di Lecco dell’11 febbraio 2012 su “Percorsi d’Apicoltura nelle Carceri, nelle Comunità e nelle Cooperative Sociali”, organizzato dal COPAIT (Ass. per la produzione e la valorizzazione della Pappa Reale Italiana) con la partecipazione di UNAAPI (Unione Nazionale Associazioni Apicoltori Italiani), CONAPI (Consorzio Nazionale Apicoltori), APILombardia e la Cooperativa Sociale Aristotele, è stato l’occasione per uno studio diretto a verificare scientificamente l’impatto del rapporto con le api e l’apicoltura sul benessere psicologico e nell’ integrazione sociale e personale dei partecipanti ai programmi riabilitativi .
Sia allo scopo di ottenere una migliore conoscenza sull’interazione uomo-api nei percorsi di recupero dalle tossicodipendenze, che per consentire una più valida modulazione degli stessi interventi operativi.

Colture perdute perché ci si dimentica d’irrigarle, frutti ed ortaggi, compresi quelli destinati alla mensa della Comunità, lasciati sulle piante o nell’orto senza raccoglierli, bestiame morto d’inedia o d’incuria, attrezzi abbandonati nei campi, perfino qualche animale da cortile deliberatamente ucciso a bastonate…
Nel rapporto con le piante e gli animali emergono, non mediate, le problematiche relazionali delle persone ospiti in Comunità.
In questo contesto l’apicoltura, sia per i suoi valori simbolici che per gli aspetti operativi, rappresenta una preziosa opportunità di formazione e di crescita, insegnando l’attenzione, la responsabilità, la prudenza…

Secondo Freud, (Dialogo della civiltà,1929), l’arte ha il potere di penetrare e rappresentare la specificità del sentire umano, e così una rappresentazione delle dinamiche psichiche nel rapporto con la natura dei ragazzi ospiti della Comunità Mondo Nuovo durante il loro percorso pedagogico-riabilitativo, può essere riconosciuta in un quadro di Lucas Cranch, “Venere e Cupido che reca un favo di miele”, presente nella Galleria Borghese di Roma e risalente, nella versione che qui presentiamo, al 1537, dato che il soggetto fu ripreso dal pittore almeno tre volte.
In due di queste Cranach scelse di accompagnare le figure di Venere e Cupido con un distico moraleggiante dell’umanista Chelidonio che ricorda come la voluptas sia di poca durata e accompagnata dal dolore, come con la droga, come capita al piccolo Cupido quando nel gustare il favo di miele viene punto dalle api, e cerca consolazione nella madre – come i ragazzi in ciclo, cui la Comunità offre quell’amore che spesso è stato loro negato.

Colto, amante della cultura classica e dell’arte italiana, Lucas Cranach fu il pittore che nella Germania del primo Cinquecento aprì con più coraggio alla nuova stagione del Rinascimento, elaborando un linguaggio artistico non solo originale rispetto alla maniera italiana, ma declinando l’umanesimo con accenti espressionisti, spigolosi, spesso ironici e grotteschi, dove anche le immagini della natura e della grecità – che nei pittori italiani trasudavano della nostalgia
per quella terra che le fonti classiche dicevano abitata da pastori poeti, la nostalgia quindi di un ritorno ad immergersi nella natura, in quel mondo vivente delle piante, degli animali, del paesaggio, ritenuto lo scenario naturale delle migliori potenzialità dell’uomo – divengono in Cranach desinenza impervia di un linguaggio teso a denunciare il lato oscuro del mito, dell’animo umano, della vita…

Le esperienze sono ormai numerose e variegate, e anche nell’ambito del percorso socio-riabilitativo delle persone con un passato di tossicodipendenza ospiti della Comunità Mondo Nuovo, particolare attenzione è rivolta alla terapia occupazionale, indirizzandola spesso verso il lavoro nel verde (agricoltura, giardinaggio, allevamento), considerato particolarmente atto a favorire il processo di recupero dello stato di benessere e di autorealizzazione dei soggetti, e l’ integrazione con l’ambiente sociale.
Ma proprio l’esperienza con le persone in ciclo comunitario, come pure il confronto con analoghe realtà operative, ha messo in luce che, a differenza dei risultati ampiamente positivi riscontrati nei casi del disagio sociale ( carcere, emarginati ), del disagio psichico e mentale e del disagio fisico, riguardo alla tossicodipendenza il lavoro nel verde più che gesto pacificato e pacificante appare come il luogo dove si manifestano pulsioni ed ossessioni che congiurano contro quella presa di coscienza del proprio disagio che è la premessa di ogni percorso di riabilitazione ed integrazione.
Ed ecco emergere gli “atti mancati” – le dimenticanze, le azioni casuali od inconsapevoli – fino a veri e propri gesti di aggressività cui fanno le spese le colture, gli animali, le stesse macchine agricole…
Come se questi soggetti proiettassero sulla natura, le piante e gli animali, le loro brame di dominio e le loro angosce di morte di fronte a tutto quello che appare vitale e fecondo, sì, ma anche indifeso. Quasi un incontro-scontro col passato, una proiezione all’esterno di quelle parti di sé sentite come persecutorie e distruttive, un simbolo delle perdite dolorose di cui è costellato il loro vissuto, cui si uniscono, nei gesti, spesso inconsapevoli, di dissoluzione e distruzione, fantasie libidiche di onnipotenza e di alienazione – come un tempo con la droga…
Quell’alienazione da sé e dall’ambiente sociale, quell’alienazione rispetto all’Altro, che è uno dei tratti distintivi della tossicodipendenza – e secondo molti autori, primo fra tutti Bowlby, correlata alle problematiche dell’ “attaccamento”, alla mancanza di figure di riferimento valide. E nel deserto delle relazioni affettive, anche in mezzo alla natura si presenta inquietante quell’istinto di morte che, per nostra esperienza, nel tossicodipendente si riverbera dal soggetto verso la Madre Terra – oggetto edipico da possedere, temere, distruggere.

Ed ecco invece che il rapportarsi, anche lavorativamente, con un insetto sociale e con l’apicoltura offre inattese opportunità, tanto che le api possono supportare positivamente il lavoro degli operatori e dei terapeuti in un percorso di formazione e di crescita delle persone in ciclo comunitario – tanto da giustificare il titolo, “L’Ape Operatrice”, del nostro intervento al convegno di Lecco.
Dove proprio l’apicoltura, nell’esperienza della Comunità, consente un valido percorso formativo attraverso ed oltre il disagio, alla ricerca del miele della vita.
Le api possono così essere di esempio e di stimolo per i nostri utenti, con la loro operosità ed il loro “altruismo” sociale, con la dolcezza e l’utilità dei loro prodotti. Di esempio, ma anche di monito, in quanto con le loro punture possono proteggere quel superorganismo che è l’alveare, “insegnando” a contenere le pulsioni aggressive e distruttive e soprattutto ad avere attenzione verso gli altri e al proprio operare, come appunto insegna anche la Comunità.
Come già nelle “Georgiche” di Virgilio, dove le api, riprendendo la metafora sociale di Cicerone, mostrano un’organizzazione comunitaria, caratterizzata dalla fedeltà alla casa e alle leggi, dalla condivisione delle risorse e dalla dedizione al lavoro in vista del bene comune, in una tipica visione stoica della società. In questa opera, Virgilio abbandona la visione consolatoria della natura per trasformare la natura in cultura, grazie appunto all’esempio delle api, che assumono qui sia un significato antropologico e culturale che narrativo e letterario, simbolo della rinascita di ciò che è vivo da ciò che è morto. Come nella Comunità, dove i ragazzi in ciclo passano dalla morte della droga e del peccato a una nuova vita, in un mondo nuovo di relazioni sociali e personali positive.
L’alveare infatti si configura, nei suoi aspetti simbolici ma anche naturalistici ed operativi, proprio come una Comunità, dove ognuno ha il suo ruolo, che evolve nel tempo con sempre nuovi compiti e responsabilità, e dove si impara a prendersi cura degli altri per poter curare se stessi.
Una mutazione di segno, come per Pinocchio, che proprio nel “Paese delle api industriose”, dopo una serie di vani tentativi di rivendicare la propria vagabondaggine, scopre l’importanza del lavoro e di aiutare gli altri e ritrova la Fatina dai capelli turchini…
Una mutazione anche in senso antropologico, per chi con la droga si era abituato a vivere giorno per giorno di espedienti e di traffici, volendo tutto e subito ed a qualsiasi costo, e tutto dissipando nella solitudine, nell’egoismo, nella morte. Ed ecco che le api possono insegnare il lavoro ed il risparmio, la pazienza e la fiducia, la collaborazione e la condivisione, la comunicazione e la gratificazione, propria ed altrui.
Risultando il lavorare con le api – sia per il ragazzo in ciclo che per l’operatore ed il terapeuta – un importante momento di analisi ed elaborazione delle problematiche personali, dove vengono evidenziati i fattori di disagio e le cause che hanno portato alla devianza, e insieme una verifica delle capacità di recupero e di relazione con se stessi, gli altri, la società.
E in effetti è possibile riconoscere il procedere nel programma socio-riabilitativo delle persone in ciclo comunitario proprio nella riappropriazione di un positivo rapporto con la natura, le piante, gli animali: parole come crescita, collaborazione, responsabilità, dolcezza, legano insieme le api con queste persone in condizioni di disagio verso se stesse e la società…
E insieme al ritorno economico che consente di far fronte alle tante necessità dei ragazzi in ciclo comunitario, valido indicatore del successo dell’iniziativa è che alcuni ragazzi, terminato il loro percorso, si sono creati una vera e propria attività imprenditoriale e lavorativa come apicoltori . Agevolati dal fatto che l’apicoltura, questa vera e propria forma di agricoltura senza terra, si caratterizza proprio per necessità di investimenti iniziali molto modesti e dalla facilità di indirizzare la produzione verso l’incremento del capitale d’esercizio, consentendo di far crescere i propri apiari insieme alle proprie capacità ed al proprio impegno.
L’apicoltura quindi sta dimostrando pienamente la sua funzione ergoterapica nel percorso comunitario, intesa come formazione lavorativa e formazione alla vita sociale, in un certo senso confermando quanto affermato dal De Mandeville nella sua “Favola delle api”, dove i “vizi privati” dei nostri ragazzi (l’alcool, la droga, la devianza) sono trasformati in “pubbliche virtù”, con il loro ritorno alla vita sociale come cittadini integrati e consapevoli.
Come in Cranach – che tra l’altro nella sua farmacia di Wittenberg smerciava non solo medicamenti e pozioni, ma anche miele, cera e propoli, spesso usati come componenti dei colori dell’epoca – dove la vivida rappresentazione delle passioni umane è aperta con coraggio alla nuova stagione umanista… Con una sensibilità nuova e una gran voglia di cambiamento e di libertà, e che noi ora, partendo appunto dalla rappresentazione di Cranach come metafora dell’apicoltura, possiamo riconoscere nei ragazzi in ciclo comunitario. Una speranza certo, e una promessa!

E come le api proprio a conclusione del loro ciclo vanno ad impollinare i fiori e a raccogliere il nettare, così i nostri ragazzi potranno fecondare la società con i principi ed i valori che la Comunità ha dato loro, raccogliendo finalmente, dopo gli anni di devastazione e di droga, il miele della vita.
Ma per far questo, come nella citazione iniziale, occorre mani che si tendano, che si tendano per accogliere e per ricevere!

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