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La necessita’ di credere ancora nel paradigma rieducativo

“Le pene non possono essere contrarie al senso di umanita’ e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Cita così l’articolo 27, comma 3, della Costituzione italiana, nonchè pilastro portante dell’ideologia sostenuta dalla L. 354/75. Questo concetto vuole sottolineare che già di per sè la pena è sofferenza, ma questo “castigo” deve essere affrontato con finalità differenti, che siano utili al recupero del condannato. La società non è stata ancora capace di inventare un meccanismo diverso, e migliore della struttura carceraria ed è per questo che bisogna applicare la pena guardando al futuro. L’articolo rileva la necessità di orientare giustamente e positivamente i percorsi di coloro che attraversano lo stato detentivo, affinchè possano apprendere una nuova modalità di affrontare le loro criticità una volta fuori dalle mura. La pena quindi non può assolvere semplicemente una funzione retributiva e di difesa sociale, ma deve essere orientata al possibile ritorno in società. Nell’articolo, una locuzione importante riferita alla pena è che essa “deve tendere” alla rieducazione. Il legislatore non ha inserito che “deve essere” rieducativa. Questo perchè i costituenti, hanno voluto sottolineare quanto la rieducazione non possa affatto prescindere dall’adesione dell’interessato al suo processo di recupero. In caso contrario si avrebbe un trattamento coatto e non si rileverebbe la volontarietà del soggetto. Il nostro è il tipico ideale rieducativo di uno stato democratico, dove esso si può esprimere nei modi corretti. Il condannato, pur possedendo questa liberta di adesione, è legato ad un vincolo implicito, che in un certo senso serve a spronarlo: colui che non aderisce al processo rieducativo, si pone automaticamente fuori dall’ottica penitenziaria. Ad esempio sarà più difficile accedere ai permessi premio, i quali presuppongono come requisito la partecipazione attiva al trattamento. Ciò su cui bisogna però riflettere è il significato del concetto di “rieducazione”. Inizialmente si è pensato che fosse sinonimo di “emenda”, ovvero che si esplicasse attraverso un processo interiore di revisione critica , che porta a pensare sul fatto commesso. Accogliendo questa visione, però, ogni pena sembrerebbe essere rieducativa, compresa quella perpetua. In seguito si è arrivati ad una nuova prospettiva, ovvero quella di considerare la rieducazione come l’obiettivo di reinserimento nella società, dopo l’acquisizione della capacità di non violare la legge penale, indipendentemente dalle sue ragioni (cosa non facile e non scontata per molti detenuti, che al di fuori devono fare i conti con una vita critica e disagiata). L’Ordinamento Penitenziario, pur avendo ottime facoltà propositive e giuste, ha dovuto fare i conti con numerose difficoltà nel mantenimento del paradigma rieducativo. In primo luogo a causa della carenza di mezzi: dall’inadeguatezza del palco edilizio alla carenza di operatori sociali. Nell’istituzione totale il detenuto sviluppa un certo grado di infantilizzazione, per cui perde una buona parte della sua capacità di autogestione delle attività quotidiane. Il carcere ha quindi un’alta portata criminogenetica. Per ogni richiesta bisogna compilare la cosiddetta “domandina”, la cui risposta da parte dell’Amministrazione richiede tempo. Nessun detenuto possiede una percentuale di capacità decisionale. Bisogna anche chiedersi se un “buon detenuto”, passivo, che si adegua e che non discute, potrà essere in futuro un buon cittadino o se sarà un peso morto che preferirà ritornare tra le mura della cella, perchè non in grado di affrontare gli eventi. In secondo luogo il carcere si fonda su una contraddizione: paradossalmente non è concepibile come sia possibile rieducare in un luogo che possiede regole antitetiche rispetto a quelle della società esterna. In esso vi è una sottocultura e delle regole interne che non corrispondono a quelle che noi rispettiamo ogni giorno. Al fine pena, il detenuto non può che essere confuso e disorientato. Questi punti sono stati, e sono tutt’ora, motivo di discussione. Ogni aspetto della vita carceraria deve e merita di essere discusso, perchè ciascuna persona detenuta possa essere orientata positivamente ad una nuova vita, in linea con il famoso articolo 27, comma 3, della Costituzione italiana, trave portante di un’umanità che è capace di ascoltare ed agire.

BIBLIOGRAFIA

– MELOSSI D., Stato, controllo sociale, devianza, Bruno Mondadori, Milano, 2002
– L.354/75 Ordinamento Penitenziario
– CLEMMER D., Carcere e scietà liberale, Giappichelli Torino, 1997

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