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L’assistente sociale apicale (3° parte)

La lettura dal testo di legge delle competenze dell’assistente sociale specialista fa pensare ad un professionista che ha come principale compito NON il rapporto con l’utenza (il che è più che chiaro per l’assistente sociale di base, basta leggere il comma 2 di detto articolo), bensì il rapporto con l’organizzazione di lavoro. Basti pensare all’elaborazione e gestione di programmi, alla pianificazione, organizzazione e gestione manageriale, alla direzione di servizi complessi, alla valutazione dei servizi e alla ricerca sociale. Se da una parte l’iscrizione in sezione A abilita in automatico anche all’esercizio delle funzioni di sezione B (chiaramente detto al comma 5 dell’art. 3 del citato DPR), non è invece per nulla vero il contrario. L’articolo 3 del Testo parla chiaro: ad ogni sezione le proprie competenze, l’unico scavalco è dell’A sul B e non viceversa! Non si tratta di un capriccio del Legislatore, bensì di una logica ripartizione di competenze, le quali dicono chiaramente che, per essere un assistente sociale apicale, bisogna avere il relativo titolo di studio. Il problema delle successive sanatorie, per Legge o per Sentenza, che hanno permesso l’iscrizione in sezione A in assenza del relativo titolo di studio, non fa che complicare un indirizzo che il Legislatore aveva coerentemente preso non solo per la nostra, ma per tutte le professioni ordinate. D’altra parte che senso ha “essere” in una sezione di Ordine per cui sono richieste competenze, che poi non si hanno? Il danno, semmai, ce l’hanno i laureati specialisti/magistrali, i quali, per un riconoscimento delle competenze manageriali nel mondo del lavoro, si ritrovano “impantanati” in un gruppo che, a maggioranza, il managerialismo neanche sa cos’è.
A mio modo di vedere la professione ha fallito una storica occasione di esercizio del doppio livello, quello “con l’utente” e quello “di management”. Ha fallito una necessaria contaminazione scientifica con la sociologia, con l’economia e con la psicologia del lavoro (se penso, per esempio, alla gestione del personale), che tanto bene avrebbe fatto al servizio sociale, alle persone e alla nostra immagine, ancor oggi ancorata ad un mix di aiuto-controllo ibrido ormai fuori dal tempo. Tutto ciò con buona pace per tutte le aperture che lo stesso codice deontologico faceva (e fa) al rapporto tra l’assistente sociale e l’organizzazione. Se infatti il titolo VI del Codice richiama appunto la responsabilità nei confronti dell’organizzazione del lavoro, precisando anche in alcuni passaggi (artt. 49 e 50) certi obblighi comportamentali dell’assistente sociale apicale, resta la chiara sensazione che si considera il solo assistente sociale di base. Se anche il Regolamento dell’Ordine per la Formazione Continua ha cambiato la propria dizione (dopo l’entrata in vigore dell’obbligo il Regolamento era “per gli assistenti sociali ed assistenti sociali specialisti”, mentre ora esso è “per gli assistenti sociali”) nonostante la Norma ancora coniughi i due livelli di esercizio, ciò significa semplicemente il fatto che la professione ci crede poco ad un assistente sociale apicale. Speriamo di cambiare questa tendenza!

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