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L’assistente sociale apicale (4° parte)

Eppure l’assistente sociale apicale può esistere, l’importante è volerlo essere, occorre però costruirsi un percorso, operazione non facile perché, come detto prima, la stessa professione se lo riconosce poco. Come già asserito, stanti gli attuali meccanismi del mercato del lavoro oggi in Italia, specie quello dei servizi alla persona, non è facile essere un assistente sociale apicale: il mondo del lavoro non lo conosce, né la professione lo valorizza, né la stessa università lo forma. L’aggravante in tutto ciò è rappresentata anche dalla devolution normativa riguardo ai profili professionali sociali, mai codificati dallo Stato (ricordo l’inattuato art. 12 della Legge-quadro), per cui le apicalità nei servizi alla persona sono state di fatto occupate da tutti, tranne che dagli assistenti sociali. Nel settore pubblico le dirigenze dei servizi sociali abbondano di sociologi, laureati in scienze politiche, giuristi, pedagogisti, pure ingegneri ed architetti, quasi mai troveremo un assistente sociale specialista. Il motivo è semplice: premesso che la dirigenza è riservata al possesso della laurea magistrale, chi ce l’ha concorre, chi non ce l’ha resta escluso. Nel settore privato le apicalità prescindono invece dal titolo di studio, purtroppo, e riguardano semplicemente persone che, per competenza o per mera utilità, si sono distinte. Anche lì si assiste ad una paurosa assenza di assistenti sociali, solo per il semplice fatto che, storicamente, la nostra professione ha sempre snobbato ciò che non fosse pubblico. Eppure negli ultimi tempi, anche grazie al (salutare) blocco del pubblico impiego, specie nelle regioni a più bassa tradizione pubblica, si evidenziano belle esperienze di colleghi apicali felicemente impegnati in funzioni di governo di imprese e realtà non profit.
A mio modo di vedere, sia nell’ambito pubblico (in cui si dirige se si è in possesso del titolo magistrale) che in quello privato (dove l’interesse è legato alla “funzionalità” nell’organizzazione) dobbiamo ragionare su chiare competenze che un assistente sociale apicale deve possedere. Premesso che va recuperato nella formazione tutto il backgruond che riguarda l’esercizio delle funzioni di management, queste vanno prima dichiarate e poi poste come “obiettivo personale” per chi voglia intraprendere questo percorso. Se cioè l’assistente sociale vuole dirigere servizi deve saperlo fare: si tratta di gestire un “potere” che non è abuso o potestà, bensì servizio all’organizzazione. Si tratta di “cambiare testa”: non si fa il capo, bensì si esercita la leadership.

La differenza tra capo e leadership nella sociologia delle organizzazioni è sostanziale: si tratta di due ruoli ben diversi, il primo “storico”, se si vuole anche “collaudato”, ma ad oggi inefficace, il secondo molto ben descritto in letteratura ma assai poco praticato in Italia per semplici motivi culturali. Nel nostro Paese, infatti, probabilmente per un errato “cattolicesimo medioevale e formalista” (contro cui lo stesso papa Francesco sta lottando), ha più valore la fedeltà rispetto alla competenza, è più richiesta l’adattabilità alla coerenza. Ciò è evidente nel settore pubblico, in cui la stessa dirigenza è nominata dal potere politico: essa quindi ha il compito di “eseguire” certe indicazioni politiche, anche se queste hanno natura (come sempre) di consolidamento del consenso e assai meno di servizio al popolo. Ma anche il settore privato ha vizi simili, anche se lì l’indirizzo (che è quello economico)a me sembra più coerente. Certo è che, nei servizi alla persona più che altrove, essendo l’elemento delle risorse umane strategico per la gestione, sempre più bisogna vendersi come leader e meno come capo. Oggi, rispetto al medioevo, la gente rifiuta il despota, accetta invece il leader.

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