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Strumenti e tecniche di relazione per assistenti sociali e operatori che lavorano con l’utenza migrante (1° parte)

L’assistente sociale è un interlocutore privilegiato nel lavoro con l’utenza migrante ma non è immune dal senso di disorientamento provocato dalla velocità dei mutamenti sociali e dai sentimenti di paura dovuti a una difficile comprensione degli accadimenti quotidiani. Occorrono capacità di lettura, riflessività e pensiero critico tarati su riferimenti nuovi e dinamici al fine di tutelare realmente l’unicità delle persone con le quali si lavora e nel contesto culturale da cui provengono.
Lo scopo di questo articolo non è spiegare ancora una volta il procedimento metodologico professionale ma è arricchire il processo d’aiuto dell’assistente sociale di elementi più complessi e articolati al fine di conoscere e riconoscere nuove sfumature in storie che spesso il professionista legge come inconciliabili con i riferimenti culturali e le modalità operative del proprio servizio, ma che possono invece essere considerate sotto una luce diversa.
A tal fine è necessario ragionare su strumenti e tecniche di ri-posizionamento nella costruzione della relazione d’aiuto, fondamentali per valorizzare e fronteggiare l’eterogeneità e la pluralità del contesto in cui viviamo e questo è tanto più necessario se si pensa alla rilevanza che l’utenza migrante ha assunto nel lavoro dei servizi sociali di territorio (ad esempio nel 2015 su un totale di 6.474 utenti che si sono rivolti presso i Servizi Sociali della Città di Torino 1.494 erano di origine straniera).
Parlare di multiculturalità, interculturalità e di integrazione appare sempre meno esaustivo mentre sembra vitale discutere di transculturalità, di relazionalità e di interazione.
Con il significato di multicultura si intende la compresenza, su uno stesso territorio, di popoli differenti per etnia, lingua e cultura, limitandosi a indicare la realtà statica del fenomeno che vede diverse popolazioni insieme sullo stesso territorio, senza che ciò presupponga necessariamente un confronto, uno scambio e un incontro (Laura Tussi, 2010).
Il termine intercultura invece presuppone l’impegno nel ricercare forme, strumenti, occasioni per sviluppare un dialogo tra le culture in un confronto, ricco, costruttivo e creativo, di idee e valori alla ricerca di punti di incontro che ne valorizzino l’intreccio, dove il prefisso inter indica la reciprocità interculturale, la prossimità del diverso, in un terreno fecondo di negoziazione e di scambio. Dunque l’intercultura costituisce la risposta educativa alla società multiculturale e multietnica (Laura Tussi, 2010).
In base a tali presupposti concettuali risulta possibile delineare e quindi necessario portare avanti una cultura nuova, parlando di transculturalità intesa come capacità di attraversare i confini delle singole culture in virtù della consapevolezza dell’appartenenza alla comune specie umana e a un’unica madre Terra. Condividere un progetto di cittadinanza planetaria, sorretta dai principi e dai valori di un’etica universale che porti a realizzare un progetto di coesistenza pacifica, assicurando i fondamentali diritti alla libertà, alla conoscenza, alla creatività e al rispetto delle proprie differenze investendo su concetti valoriali pedagogici che coinvolgano le diverse istituzioni educative nell’elaborazione di un progetto formativo finalizzato a educare al dialogo e al confronto interculturale (Laura Tussi, 2010).
Tali processi possono essere costruiti attraverso la formazione degli operatori, l’attivazione di percorsi di cittadinanza e partecipazione, la promozione di attività culturali (dibattiti, spettacoli teatrali, eventi musicali, proiezioni di films, presentazione di libri) e l’attenzione ai giovani al fine di realizzare strategie di incontro e di socializzazione volte non più alla coesistenza ma alla convivenza, ricca di relazioni significative e consapevoli.
L’impegno etico del servizio sociale verso la giustizia sociale, espresso anche dalla definizione internazionale (A. Sicora, 2014), è la premessa che orienta il mandato professionale dell’assistente sociale verso la realizzazione della policy practice, come un elemento costitutivo della pratica professionale quotidiana. L’azione volta alla tutela dei diritti è nel DNA della professione sociale (Gloria Pieroni, 2009) e il Codice Deontologico permette all’assistente sociale di essere promotore e interlocutore privilegiato nel lavoro con l’utenza migranti.
Tra gli articoli più significativi è bene ricordare, affinché non rimangano mere definizioni teoriche, l’art. 5 che fonda la professione sociale sul valore, sulla dignità e sull’unicità di tutte le persone, sul rispetto dei loro diritti universalmente riconosciuti e delle loro qualità originarie, quali libertà, uguaglianza, socialità, solidarietà, partecipazione, nonché sull’affermazione dei principi di giustizia ed equità sociali.
L’art. 7 dichiara che l’assistente sociale riconosce la centralità della persona in ogni intervento considerando e accogliendo ogni persona portatrice di una domanda, di un bisogno, di un problema come unica e distinta da altre in analoghe situazioni, collocando la persona entro il suo contesto di vita, di relazione e di ambiente, inteso sia in senso antropologico – culturale che fisico.
L’art. 36 sancisce che l’assistente sociale deve contribuire alla promozione, allo sviluppo e al sostegno di politiche sociali integrate favorevoli alla maturazione, emancipazione e responsabilizzazione sociale e civica di comunità, di gruppi marginali e di programmi finalizzati al miglioramento della loro qualità di vita favorendo, ove necessario, pratiche di mediazione e di integrazione.
L’art. 37 stabilisce che l’assistente sociale ha il dovere di porre all’attenzione delle istituzioni che ne hanno la responsabilità e della stessa opinione pubblica situazioni di deprivazione e gravi stati di disagio non sufficientemente tutelati, o di iniquità e ineguaglianza.
L’art. 38 dichiara che l’assistente sociale deve conoscere i soggetti attivi in campo sociale, sia privati che pubblici, e ricercarne la collaborazione per obiettivi e azioni comuni che rispondano in maniera articolata e differenziata a bisogni espressi, superando la logica della risposta assistenzialistica e contribuendo alla promozione di un sistema di rete integrato.
Infine l’art. 45 afferma che l’assistente sociale deve impegnare la propria competenza professionale per contribuire al miglioramento della politica e delle procedure dell’organizzazione di lavoro, all’efficacia, all’efficienza, all’economicità e alla qualità degli interventi e delle prestazioni professionali.
Tali premesse sono basilari ma non sono sufficienti nel lavoro con l’utenza migrante in quanto l’assistente sociale deve maturare competenze interculturali, attraverso una formazione specifica caratterizzata da un’imprescindibile multidisciplinarietà in ambito giuridico, storico e geopolitico, antropologico, sociologico, medico-psicologico e pedagogico-educativo.

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