Questo sito utilizza diversi tipi di cookie, sia tecnici sia quelli di profilazione di terze parti, per analisi interne e per inviarti pubblicità in linea con le tue preferenze manifestate nell'ambito della navigazione.
Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie clicca qui.
Se chiudi questo banner o prosegui la navigazione acconsenti all'uso di tutti cookie.

| |


Spazio libero per la tua pubblicità,
contattaci »


Strumenti e tecniche di relazione per assistenti sociali e operatori che lavorano con l’utenza migrante (2° parte)

Nella relazione interculturale occorre riconoscere la presenza di eventuali difficoltà linguistiche, di comunicazione e/o dei conflitti di valore con le persone e famiglie migranti, attraversate da processi di acculturazione.
L’approccio interculturale non è lineare e univoco in quanto strettamente interconnesso alle rappresentazioni sociali, ai meccanismi etnocentrici e ai modelli professionali di riferimento.
L’emersione e la consapevolezza delle rappresentazioni e dei valori rappresentano un punto fondamentale nella relazione interculturale: le rappresentazioni sono inconsce quindi strettamente legate al mondo affettivo e sono trasmesse culturalmente (Walter Lipmann, 1922). La mente umana non è in grado di comprendere e trattare l’infinita varietà di sfumature e l’estrema complessità con le quali il mondo si presenta. Pertanto si ricorre a categorizzazioni per ridurre la quantità di informazioni da gestire, per semplificare, raggruppando in categorie la massa delle informazioni da trattare rischiando di dare luogo a distorsione, a sovra generalizzazione e ad esagerazione delle caratteristiche che impoveriscono l’informazione. Una possibile via d’uscita è di riconoscere che in ogni comunicazione c’è una parte di approssimazione, una parte di malinteso inevitabile e che riflette una parte di inaccessibilità dell’altro che bisogna accettare. Abbiamo tutti stereotipi e pregiudizi, se poi questi orientano le azioni, è importante farli emergere, prenderne coscienza, riconoscerli e dargli forma, senza paura. Quando si va incontro a un’altra cultura, si ha la naturale tendenza ad approcciarsi sulla base dei criteri della propria visione del mondo. Questo viene detto etnocentrismo. Diventa necessario sviluppare una coscienza culturale, possibile solo considerando ogni cultura come un “insieme di significati” dinamici, la cui funzione non è soltanto quella di rappresentare o descrivere un territorio (modelli di) ma è anche di fornire istruzioni per costruire strutture, istituzioni, realtà individuali e collettive (modelli per), secondo la terminologia di Clifford Geertz (1988). Se ogni persona considerasse “gli altri” non come esseri “incomprensibili” e “alieni” ma come persone appartenenti ad una società che accoglie valori degni di esser quantomeno conosciuti per poi magari essere anche apprezzati e condivisi sarebbe possibile costruire nuove specie di relazioni; non più basate sulla dominazione o sulla dipendenza, sulla incomprensione o sulla sfiducia, ma sulla stima reciproca e sul rispetto tra i popoli. Al fine di raggiungere questo risultato, occorre prendere una distanza critica dalla propria cultura, dal sistema di valori, dalle mete della società e dal modello di sviluppo.
Infine i modelli professionali inducono delle aspettative rispetto agli scenari in quanto basate su ancoraggi molteplici che rischiano di affermarsi come elementi assoluti, non adattabili ad altre regole sociali e ad altri contesti socio-culturali.
L’obiettivo del metodo di Margalit Cohen-Emerique consiste nel sensibilizzare il professionista a percepire, riconoscere (dare valore, conoscere e rispettare) e ricercare le differenze culturali arricchendole in una buona pratica professionale.
Nel lavoro con i migranti è possibile vivere una reazione emotiva di profondo spaesamento, caratterizzata da ansietà e frustrazione, ovvero un cosiddetto choc culturale. Lo choc culturale è una reazione negativa, di spiazzamento, di rigetto, di disgusto; ma è anche un affascinarsi, un’esperienza emotiva ed intellettuale che il soggetto prova nel contatto con l’altro. Spesso si tratta di choc positivi in quanto nella relazione entra in gioco qualcosa: un’emozione.
Lo shock culturale, invece, è la reazione di coloro che migrano provando ansietà dalla perdita dei segni familiari e dei simboli della realtà sociale abituale. Essi vivono un sentimento di estraneità, di incomprensione o anche di rigetto nel confronto con i nuovi quadri di riferimento. Dopo una luna di miele più o meno lunga, dovuta alla novità e alle aspettative, il migrante si sente in un mondo straniero non solo per tutto quanto riguarda le norme e i valori, ma anche per tutto ciò che compone l’ambiente sociale e culturale. Marco Mazzetti (2003) descrive l’evoluzione della costruzione della relazione tra persone dotate di un bagaglio esperenziale e valoriale differente attraverso il susseguirsi di tre fasi relazionali e movimenti emotivi:
1) fase dell’esotismo: accostandosi a una realtà nuova e molto diversa da quella abituale, si è animati da curiosità e dall’aspettativa di gustare esperienze stra-ordinarie, per l’appunto esotiche. Analogamente le persone con cui si costruirà una relazione d’aiuto possono aspettarsi un contributo eccezionale visto l’appartenenza al mondo occidentale, conosciuto attraverso i mass media come ricco e vincente;
2) fase dello scetticismo: si passa attraverso la necessaria delusione conseguente all’impatto con i limiti della realtà nella quale finisce l’esaltazione per la scoperta (menzogna collettiva dell’illusione del processo migratorio mentre il professionista depotenzia la carica “contaminante” del migrante riducendolo a persona da proteggere) e si avverte perlopiù la presenza di operatori sprovvisti di risorse economiche (trauma migratorio deteriorato dall’estenuante attesa e dall’impossibilità di realizzare il progetto migratorio mentre il professionista tende a diffidare della veridicità del disagio provato dal migrante fino a mettere in dubbio l’utilità del servizio). Pertanto ci si difende dall’incontro attraverso diverse modalità, comprese tra le polarità estreme della chiusura nelle proprie abitudini culturali, l’arroccamento, oppure all’opposto dello sbilanciamento eccessivo, quasi mimetico, verso il mondo culturale ospitante, l’iperadattamento. É invece necessario costruire gradualmente, insieme alle altre persone, delle distanze relazionali più fluide, mobili e bilanciate, basate sulla conoscenza e sulla fiducia reciproche, permette di giocare attitudini diversificate e adeguate ai diversi contesti situazionali;
3) fase del criticismo: è la successiva elaborazione attraverso la caduta dell’ideale permette di approdare alla fase finale più benevolmente critica e realistica che, una volta consolidata, garantisce le basi per alleanze di lavoro proficue e solide.

Articoli Correlati

  • Non ci sono post correlati

Nessun commento Leave a comment »

No comments yet.

Leave a comment


Notice: Undefined variable: user_ID in /var/www/AssistentiSociali.org/blog/wp-content/themes/assistentisociali/comments.php on line 39