CAMBIAMO DISCORSO. Diagnosi e counselling nell’intervento sociale secondo il paradigma narrativistico. A cura di L. Colaianni e P. Ciardiello
Laboratorio Sociologico – Franco Angeli
A Settembre 2008 in libreria.
Presentazione
È possibile collocare le scienze discorsive con piena legittimità nell’alveo del rigore scientifico? Quale rapporto intercorre tra teoria e prassi nell’ambito degli interventi svolti dalle professioni che si inscrivono i quei paradigmi, come quelle sociali? È possibile generare interventi che rispondano a criteri di scientificità, ovvero che, a partire da obiettivi descrivibili, individuino strategie e indicatori di efficacia ed efficienza e siano quindi accountable? Infine è possibile rendere disponibili per il ruolo di assistente sociale modelli applicativi che permettano la definizione di obiettivi “terzi” nell’intervento e quindi la collocazione nel ruolo?
Questo libro si fonda sulla prospettiva aperta dell’interazionismo simbolico e dalla filosofia analitica, sulle tracce di quanto elaborato da Nigel Parton e Patrick O’Byrne in Inghilterra, per proporre il paradigma narrativistico e il modello dialogico – formulati da Gian Piero Turchi – come riferimenti di conoscenza ed operatività per l’intervento sociale e per rispondere alle criticità che vedono affermare – impropriamente -una cesura tra teoria e prassi.
La svolta paradigmatica proposta apre un orizzonte in cui la modalità conoscitiva appare adeguata all’oggetto di studio (i discorsi) e il modello teorico generato si attesta nel realismo concettuale. In virtù di ciò, l’operatore piuttosto che essere pervaso dal senso comune, diventa esperto su come questo si generi, e quindi competente non per i contenuti sostantivi (la “tossicodipendenza”, la “devianza”, la “malattia mentale”, la “povertà”) e per i supposti bersagli dell’intervento (i “bisogni”, il “disagio”, il “benessere” etc.), ma per il processo di configurazione della realtà nella dimensione personale e collettiva. Secondo quanto asserito da W.I. Thomas per cui «Se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze», gli effetti pragmatici e evenemenziali sono considerati come secondari alle configurazioni discorsive che si generano nell’ambito della matrice collettiva; ciò comporta che l’obiettivo operativo dell’intervento sociale sia proprio la trasformazione discorsiva e, per dirla con il titolo del libro, il cambiare discorso.
Prefazione
di Guido Giarelli
Ci sono molte buone ragioni per salutare con grande piacere la pubblicazione di questo lavoro di Luigi Colaianni e Patrizia Ciardiello dedicato all’intervento sociale secondo il paradigma narrativistico. La prima, e fondamentale, è che esso risulta basato su di una robusta fondazione teorica che, si sia concordi o meno, permette comunque di interloquire su solide basi argomentative raramente rintracciabili nell’ambito del lavoro sociale.
La seconda è che il volume risulta attraversato da un ethos costante che porta gli autori ad affrontare con passione professionale eticamente orientata problematiche e pratiche professionali come l’assessment ed il counselling con grande onestà intellettuale e rigore mentale, prima ancora che con dovizia di argomentazioni teoriche ed epistemologiche.
La terza ragione, last but not least, è lo sforzo di cui sono testimoni il quarto e il quinto capitolo del volume di esemplificazione applicativa dell’approccio proposto con studi di caso e contestualizzazioni che ne evidenziano le possibilità euristiche e la spendibilità pratica nell’ambito di campi quali l’esecuzione penale, la mediazione e il consumo di sostanze tossiche psicoattive.
Entrando poi nel merito dell’approccio proposto, esso ha il suo punto focale in quello che viene definito il “paradigma narrativistico”, basato sul ben noto assunto di W.I. Thomas che considera la realtà come generata dai processi discorsivi che la definiscano in quanto tale ad opera dei differenti attori che operano in un determinato contesto sociale: coerentemente con tale assunto teorico-epistemologico di matrice costruzionista, il testo sviluppa poi le diverse strategie professionali che, sulla base di un modello definito “dialogico-interattivo”, consentono di individuare e di modificare le differenti configurazioni di realtà generate a partire dalle pratiche discorsive prodotte dagli attori sociali entro un certo contesto e secondo determinati repertori discorsivi. In ciò seguendo e sviluppando il modello dialogico proposto da Gian Piero Turchi, in alternativa sia al modello biomedico classico, sia al modello bio-psicosociale.
Poiché il lavoro degli autori si rifà espressamente al “constructive social work” elaborato in Gran Bretagna da Nigel Parton e Patrick O’Byrne, ci pare qui opportuno richiamarne brevemente le basi fondative e le opportunità applicative. La loro proposta nasce sostanzialmente dal bisogno di sfuggire alla crescente proceduralizzazione e standardizzazione subita dal lavoro sociale nel corso degli ultimi anni in sintonia con altre professioni sociali e sanitarie sull’onda dei processi di onnipervadente managerializzazione dei servizi alla persona. Il buco nero rappresentato dall’assenza di concetti e teorie adeguate per la pratica sociale è stato così spesso colmato da linguaggi e pratiche oscillanti fra il tecnicismo e il senso comune.
Il bisogno di tornare a capire ciò che accade tra l’operatore sociale e l’utente dei servizi porta gli autori a sviluppare un’analisi critica dettagliata del linguaggio e dei discorsi impiegati nella relazione di aiuto per indurre il cambiamento comportamentale. La necessità di una teoria per la pratica sociale che consenta di andare al di là del semplice trattamento burocratico dei bisogni stereotipizzati entro categorie standardizzate di senso comune porta a rivalutare la creatività e la competenza dell’operatore sociale nell’affrontare le relazioni umane ben al di là del classico lavoro di caso, basato su di un approccio psicodinamico. Da qui l’importanza di un approccio interazionista-simbolico alle modalità con cui le persone attribuiscono significato alle proprie esperienze quotidiane e, conseguentemente, orientano le proprie azioni, atteggiamenti e sentimenti al fine di poterne agire i significati e le percezioni della propria esperienza in un’ottica di mutamento.
La proposta del constructive social work si muove quindi sulla scia della definizione di Blumer che è l’asserzione di un problema sociale che lo manifesta come tale: se si distingue infatti tra una data situazione sociale come condizione oggettiva empiricamente rilevabile e misurabile dalla medesima come definizione soggettiva da parte degli attori sociali che la considerano una forma di devianza dalle norme sociali, è quindi quest’ultima a trasformare la situazione in un problema sociale. Decostruire il processo attraverso cui determinate aree della vita sociale divengono socialmente problematiche, attraverso pratiche discorsive retoriche costituisce dunque la premessa indispensabile a consentire la possibilità per il soggetto di sviluppare discorsi alternativi: e ciò non può che avvenire sotto forma di un processo di interazione dialogica e negoziata che porti a nuove definizioni condivise in grado di produrre nuove relazioni sociali e nuove forme di autopercezione del Sé.
Al di là dei suoi fondamenti teorici, ci pare che l’approccio proposto presenti più di una opportunità applicativa per quanto riguarda il lavoro sociale. Anzitutto, in tempi di “pensiero unico” sempre più dominante anche in questo ambito professionale per stanchezza o insipienza creativa, la sua insistenza su di un atteggiamento critico nei confronti di ogni modalità data per scontata di comprensione del mondo fondata sul senso comune non può che costituire un valido antidoto. Problematizzare l’ovvio, il “reale” e il sapere professionale convenzionale su di esso costruito costituisce un esercizio di igiene mentale preliminare alla decostruzione dell’empirismo positivista che appare ancora informare questa, come altre pratiche professionali.
In secondo luogo, la storicizzazione e relativizzazione delle categorie cognitive professionali impiegate nel lavoro sociale non può che costituire la necessaria premessa alla possibilità di un autentico incontro dialogico con l’utente inteso come altro da sé, percepito nella sua alterità e nelle sue possibilità di costruzione discorsiva differente: ma con la quale sia allo stesso tempo possibile stabilire una qualche forma di interazione dialogica in nome della comune umanità, della condizione condivisa di persone.
Infine, sulla base di tale processo di interazione negoziata si apre lo spazio del possibile come rottura dell’apparente corazza impenetrabile del “reale” verso orizzonti trasformativi scientificamente fondati che consentano – come ricordano gli autori nelle loro Conclusioni – di “far galleggiare il ferro sull’acqua e nell’aria”.
Campus di Germaneto (CZ), 15 giugno 2008.
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