Diventare adulti: una ricerca possibile (seconda parte)
Il primo indicatore valoriale, il primo indicatore direzionale, che voglio presentare all’interno di questa riflessione con voi sul diventare adulti e sull’educare è la giustizia. Giustizia intesa nella definizione più elementare e più antica (l’espressione è di Cicerone): “A ciascuno il suo”. Vuol dire “Dare a ciascuno il suo”. Diventare adulti vuol dire imparare ad incontrare l’altro e dare all’altro ciò che è suo. Vuol dire che l’altro non lo si può usare, non lo si può plasmare, non lo si può forgiare, non lo si può rendere satellite del proprio agire. La tentazione per eccellenza di qualsiasi incontro è plasmare, forgiare, piegare l’altro fino a che diventi a “mia immagine e somiglianza”. A ciascuno il suo coincide con il ribadire che: l’altro è l’altro, non è disponibile. Nella vita di coppia, nelle esperienze di lavoro, in chi fa informazione c’è la tentazione continua della manipolazione, del formulare giudizi sotto la spinta emotiva, sotto l’impatto di eventi che scuotono (pedofilia, pena di morte, grandi emozioni…).
Costruire giustizia significa coinvolgersi per una complessità che rispetta tutti gli elementi in gioco, non solo quelli emotivi. Vuol dire educarsi realmente ha non piegare l’altro a mio uso e consumo, significa, come genitori, non chiedere ai propri figli di diventare ciò che noi non siamo stati. Corrisponde anche a quel difficile imparare a tacere quando si deve tacere e parlare quando si deve parlare, che, forse, è una delle difficoltà più grosse.
Non sgridare da arrabbiati per non dire cose che non si pensano; consegnare sanzioni capaci di lasciare segni positivi nella autostima, nella fiducia in sé; riconoscere il diritto all’errore come percorso obbligato… sono tutti itinerari che coinvolgono la giustizia.
A ciascuno il suo: non è abituato a qualcuno che lo incontra in positivo, non è abituato a qualcuno che gli scriva: “Vincenzo è una risorsa, anche se oggi ha disturbato.” A livello di nota ci vogliono più o meno venti secondi a scrivere questo: “Ti voglio un sacco di bene, fa male anche a me, ma ti devo sgridare”. Da arrabbiato, questo non si riesce a dire.
Mi permetto una piccola pista di lavoro per noi genitori: come diamo i castighi? Come diamo le sanzioni? Come diamo le punizioni? Come le vivono i ragazzi?
Secondo valore indicatore direzionale: testimoniare la fedeltà. Cosa vuol dire essere fedeli all’altro? Cosa vuol dire diventare capaci di accompagnare l’altro senza portarlo?
Diventare compagni di viaggio è la scommessa più grossa del diventare adulti anche se la tentazione di portare è sempre presente. E’ più comodo portare! Questa non è una metafora solo sull’educare, è anche a livello di lavoro comunitario, di gruppo, di comunità civile, ecclesiale…: è più facile portare.
L’autista del pullman porta tutti a destinazione senza necessariamente interagire con i trasportati. E’ una metafora, però spesso è così: è molto più diffide che dire “io non porto nessuno, camminiamo”.
Diventare capaci della fedeltà dell’altro, capaci di essere fedeli al suo passo, ai suoi tempi, alla sua età, capaci di essere fedeli ai suoi diritti, compreso quello, poco riconosciuto, all’errore.
Ma chi ricorda che è diritto del ragazzo sbagliare? E’ diritto di chi cresce incontrare tortuosità, a volte inattese. Il vetraio non può stupirsi che qualcuno gli dica “Ho il vetro rotto”; come non può l’educatore, l’insegnante, il cittadino, il genitore stupirsi che il ragazzo marini la scuola. Sarà un suo diritto non solo marinare la scuola, ma incontrare anche chi con autorevolezza riprende quella marachella. L’accompagnare fedele richiama il diritto dei ragazzi ad una autorità competente: l’autorevolezza è la competenza con cui si esercita l’autorità.
Se un insegnate non sa tenere i ragazzi i ragazzi dicono “non ci sa tenere”, come per dire “non lo posso stimare, non sa fare bene il grande”. Non vogliono neppure il pugno sulla cattedra che equivale a dire “sono io il capo”, ma “metto via il registro, tu non ti devi preoccupare, se è un tuo diritto sbagliare è anche un tuo diritto che io sia qui a riprenderti”.
Una sera ho ricevuto dal carcere la telefonata di un ragazzo che mi ha detto: “ti ricordi di me?” ho chiesto bene il nome, non ricordavo, incontriamo tanti ragazzi, facevo fatica a mettere insieme nome e volto. Chiacchierando sono riuscito a capire chi era e cosa era successo: “ho fatto una rapina, mi dispiace, sono davvero dispiaciuto” – “in che cosa ti sono utile? Cosa posso fare?” – “Volevo chiederti una cosa: se quello che mi hai detto una volta a scuola – era un mio alunno, di quelli simpatici – rimane vero” – “Guarda dico tante cose… ricordami che cosa” – “Tu una volta mi hai detto che io non ti avrei mai deluso” – “Si, è vero” gli ho detto.
Mi capita spesso di dire a un ragazzo “Tu non mi deluderai mai”. In quel momento in carcere aveva bisogno di sentirselo dire.
“Mi hai proprio deluso, da te non me lo aspettavo, ma proprio questo…” frasi che troppe volte i ragazzi si sentono ripetere. Sono frasi che pesano, che non aiutano a crescere, dette da chi ha costruito aspettative a cui l’altro dovrebbe piegarsi o sottomettersi.
Non vuol dire che se le abbiamo usate siamo dei falliti irrecuperabili. Cominciare a prenderne coscienza è il primo passo verso il cambiamento.
Una cosa molto bella è scoprire come gli slogan che il sociale tenta di rilanciare non sono solo parole, sono verità: il disagio diventa risorsa.
I teologi dicevano che dalla storia di peccato spunta la salvezza, per questo dobbiamo fare attenzione a restituirci con lucidità e onestà questa dimensione del punto di arrivo: è successo, non è una tragedia, ma prendiamone coscienza per cambiare.
Essere fedeli all’altro: l’altro mi chiede di essere suo compagno di viaggio e mi chiede di essere adulto, mi chiede di essere autorevole.
Non vuole che io dica le parolacce o lo imiti nell’abbigliamento per sentirmi più giovane, non vuole che io sia curioso delle sue cose.
Quante sono le cose importanti di un ragazzo? A volte stanno su una mano: l’affettività, la sessualità, l’identità, l’autonomia… “Non voglio che mi dica le sue cose”.
I ragazzi chiedono fedeltà, devono sapere che lì possono tornare, che lì c’è sempre qualcuno pronto ad accoglierli e ad ascoltarli.
Io ho fatto una bella esperienza: sono stato in collegio e avevo un rettore che era molto simpatico. Anche se ci avessero portati ammanettati, colti in flagrante lui avrebbe detto “togliete le manette, è un mio alunno, so che è buono”. A me piaceva questa cosa, da ragazzo, poi ci sgridava e ci richiamava, ma diceva sempre: “No, io so che è buono”. Cose molto semplici; la fedeltà di chi dice all’altro “So che sei buono”, poi, con la severità di riprendere le cose (lo spreco del denaro, studiare con la musica in testa…) analizzando tutto, parlandone.
Il terzo indicatore è la libertà, cosa vuol dire testimoniare la libertà? Quanto bisogno c’è di libertà! Ma quale libertà?
La libertà di chi è capace di recidere il cordone ombelicale e sa porre questo non facile cammino a chi cresce.
Bisogna tagliare i cordoni ombelicali di questa reciprocità che si fa visibile in un’autonomia liberante per entrambi. Nessuno si illuda, tutti i figli devono essere adottati.
Volendo spiazzare dei ragazzi, basta dare loro la libertà. Loro preferiscono l’ordine per poterlo disattendere: tu mi becchi e io ti frego.
Nelle scuole i ragazzi, dalla prima elementare alla quinta superiore, vengono trattati sempre allo stesso modo: giustifica l’assenza, chiedi il permesso per andare al bagno, non ti dico quando interrogo e decido io, il più delle volte si cimentano in un percorso di autonomia, a volte sanno anche protestare, occupano le scuole e rivendicano diritti.
All’università, lasciati liberi molte volte non sanno andare avanti. Hanno un bisogno enorme di essere educati, vorrei dire anche di più, temprati alla libertà. Spesso il nostro diventare adulti non ha masticato questo e anche noi siamo impauriti dalla libertà: dalla libertà di chi non condiziona l’altro, dalla libertà di chi non giudica, dalla libertà di chi si ferma sulla soglia dell’altro, dalla libertà di chi non costruisce cripte e clandestine dipendenze, dalla libertà che non è solo fare ciò che si vuole o ancor peggio a una assoluta anarchia. Libertà di saper stare e restare insieme.
Lc. 10 racconta la parabola in cui c’è il malcapitato, uno che va avanti, l’altro che passa dall’altra parte, il samaritano si ferma, fascia le ferite, versa l’olio, lo porta con il suo cavallo nella locanda, paga il locandiere, gli dice che al ritorno, se mancano dei soldi, darà ciò che necessita, basta che sia trattato bene e se ne va.
Noi l’avremmo fatto finire così? O avremmo detto: si fermò e cambiò il suo programma, aspettò che il poveretto si svegliasse per essere ringraziato, per presentarsi e fare ricordare il proprio nome?
Cosa vuol dire scomparire prima che l’altro debba dirti grazie? E un invito!
Quel poveretto si sveglia e dice: “che faccio qui? che è successo? dove sono?.
“Non lo so, so che era un Samaritano e che era buono.” – “Come faccio a ringraziare?” Non importa! Va, attivati, impara anche tu a venire via prima che l’altro sia dipendente da te.
Questo è l’invito a diventare adulti.
La libertà di non farsi dire le cose, la libertà di mettere l’altro a proprio agio, la libertà di andare ad incontrare e non di sentirsi raggiunti nella propria autorità che necessita di riconoscimenti. La libertà di chi sa parlare, ma di chi sa anche tacere.
Non si fanno i figli, non si scommette sull’educazione, non si assumono responsabilità per sentirsi dire “grazie, bravo, sei proprio un adulto”. Si accetta nella libertà di affiancare chi ha bisogno di un confronto, di una specchio, di un riferimento, sempre attenti a scomparire un attimo prima che l’altro se ne accorga.
Ho dei figli sparsi in giro per l’Italia: all’A.N.F.A.A. si può dire che alcuni ho dovuto assumerli con la responsabilità di un affidamento, a volte mio malgrado, quando erano eccessivamente orfani, quando erano eccessivamente irrecuperabili, e scoprire poi che non erano irrecuperabili. Oggi, per certi aspetti, di questi ragazzi presi in affidamento a 14 anni e portati fino a 28, sono già nonno.
Poi ho altri due figli biologicamente miei, ma non riesco a concepire molto le distinzioni. Genitore è titolo generico con esplicito rimando al dato biologico: colui che genera la vita. Ma prima di essere genitore (papà o mamma) si è anche uomo o donna, marito o moglie, sposo o sposa, persona alle prese con tutta una serie di bisogni, di aspettative e di esigenze che con l’arrivo di un figlio si trasformano e si modificano, ma che non si annullano e non si possono ignorare. Liberarsi dal rischio che un ruolo porti a dimenticare o soffocare gli altri ruoli, le altre funzioni e relazioni. Liberarsi dagli schemi mentali, diventare capaci di evitare le trappole culturali, lavorare sui propri vissuti, sulle proprie ansie o paure non è cosa che s’improvvisa.
E’ nella libertà che si è adulti o in tensione verso l’adultità.
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