Aiutare a morire
Normalmente l’assistente sociale accompagna le persone nella loro vita o verso la vita. Molto più spesso di quanto si crede, invece, ci troviamo a fare i conti con percorsi -più o meno lenti- verso la morte. Sia con l’anziano, sia con il malato cronico, l’assistente sociale si viene a trovare a contatto quotidiano con l’imperfezione, con la “non-vita”, con ciò che molto spesso suscita paure ed insicurezze. Questo contatto ci spinge quasi sempre alla fuga, un fuggire che è umanamente normale, ma davvero fuori posto per un professionista dell’aiuto. Più che “fuggire dalla morte”, è invece il caso di starci di fronte e di saperla affrontare: operazione non facile per l’uomo comune, ma necessaria per ogni assistente sociale. E’ invece percezione diffusa che l’assistente sociale fugga dal rapporto col morente, anche se fisicamente presente: in fuga attraverso la burocratizzazione del lavoro, tramite la “brutta abitudine” di fare i conti con i caregiver (spesso parenti) al posto degli interessati, anche attraverso un approccio a bassa empatia o di auto-protezione emotiva. E’ invece necessario fermarsi a riflettere e recuperare il lavoro col morente come attività ad alti contenuti professionali, occorre però precisare a grandi linee le aree di azione su cui dovremmo formarci e verificarci nel tempo. Ne cito solo alcune:
Il counselling. Si tratta, nel lavoro con le persone non autosufficienti, di dare risposta ad un bisogno di orientamento nella vita espresso da parte di chi è destinato a “restar bloccato nel proprio corpo” per lungo tempo o per chi è prossimo alla morte. Quest’ultima, in particolare, non è improvvisa, ma porta con sé diverse fasi che vanno accolte ed accompagnate tramite un ascolto attivo e restituente. Si tratta, infatti, di accogliere la frustrazione derivante dallo stato di non autosufficienza, di aiutare ad accettare la morte, di doversi adattare a questa prospettiva, di accettare questo trapasso adempiendo a tutti i compiti che comunque spettano. Si tratta di considerare la narrazione di sé come un vero e proprio processo di cura e non come un accessorio del trattamento del malato, a torto considerato spesso solo sul piano clinico.
Aiutare chi aiuta. Nella non autosufficienza non c’è solo il malato, ma il suo contesto di vita. La dedizione continua e quotidiana ad una persona avviata alla morte fa ammalare anche chi, invece, proprio perché deve aiutare, assiste il malato. C’è un immenso bisogno di parlare, di comunicare l’impotenza, di gridare il dolore da parte di cui assiste un malato. E’ il parente convivente, è la badante straniera che a malapena mastica qualche parola d’italiano, sono gli stessi operatori sociosanitari costretti (o abituati dall’organizzazione del lavoro) a trattare l’altro come un “pezzo” messo in fila a tanti altri “pezzi” da pulire ed imboccare in tempi cronometrati. Ci sono vissuti e motivazioni che richiedono di essere riviste e rielaborate. Ci sono “fantasmi di morte” che occorre che siano liberati. Ricordiamoci quindi sempre di considerare come destinatario del nostro lavoro anche e specialmente il caregiver.
L’accoglienza del malato. Passata la fase del trattamento sanitario e ritornata a casa, il malato inizia solo in quel momento a rendersi conto del bisogno di rivedere tutta la propria vita, i suoi affetti, i suoi equilibri, il suo futuro. Un sentimento diffuso è quello di non accettarsi, di odiare se stessi e di voler morire. Certamente non solo la persona, bensì tutto il suo nucleo familiare si ritrova all’improvviso nel bisogno di mettere mano agli equilibri. L’accoglienza in questi casi si traduce in silenzio, in ascolto, nello “stare davanti”. Ecco che l’accoglienza non è solo un atteggiamento etico dell’assistente sociale, ma diventa essa stessa uno strumento di lavoro: farsi trovare, non solo fisicamente, ma dare tempo e significato agli incontri. L’accoglienza non è solo una predisposizione del professionista a “venire incontro”, essa deriva anche da tutto il contesto di lavoro, il quale può rafforzare o inficiare la percezione stessa del venir accolti. Penso in particolare al “setting di accoglienza” ideale: una stanza senza disturbi alla relazione (tipo telefono che squilla o altro personale presente), riduzione delle “distanze spaziali” tra persone e professionista (evitiamo quindi la classica scrivania), eliminazione delle barriere architettoniche che spesso, ancora oggi, ostacolano le persone nell’accesso ai servizi sociali. Occorre però anche dire che sovente il setting è rappresentato dall’abitazione del non autosufficiente, per cui il contesto di relazione diventa un “dato di fatto” di cui prendere semplicemente atto: è la sua camera da letto, è il suo “regno” a diventare il luogo in cui accogliere i vissuti. Siamo noi che andiamo da lui, siamo noi ad essere accolti da lui, anche se la percezione dell’accoglienza è, indubbiamente, percepita al contrario. Pure in questi casi l’accoglienza va comunicata con i fatti, stando vicini alle persone, sedendosi di fronte ai loro letti, prendendo loro la mano: dobbiamo noi entrare nel loro spazio vitale e non loro nel nostro.
Il progetto di cura. Il lavoro sociale nel campo della non autosufficienza non può non definirsi oggi chiaramente sia nella prassi, sia nei riferimenti teorico-scientifici. Ciò richiede però un preciso impianto operativo, che è quello progettuale, il quale non è solo una “traccia pratica” dell’azione, ma diventa esso stesso fonte teorica verificata dall’esercizio dell’azione di aiuto. Si tratta di dare gambe al “case-management” permettendo l’implementazione di piani assistenziali in una logica di “lavoro di comunità”. Non si tratta solo di fare, erogare o attivare, ma di far stare tutto ciò che si realizza in un quadro teorico coerente. Un non autosufficiente porta con sé bisogni di diverso tipo, da quelli primari a quelli più immateriali, bisogni che devono essere desunti, analizzati e condivisi. Da ciò deve derivare una valutazione precisa e condivisa tra gli attori sulle cose da fare, tenendo sempre in considerazioni le capacità (del malato e del suo contesto), se esistenti, assenti o latenti. Ne consegue un “progetto di cura”, in cui vengono disegnate in primis le diverse abilità (di gestione e di cura) presenti e poi evidenziate le aree di bisogno che, reputate come irrinunciabili, vanno prese in carico attraverso il sistema delle erogazioni. Il progetto di cura non è quindi la sommatoria dei servizi attivati, bensì l’impianto in cui si mettono in evidenza i bisogni della persona e la ripartizione degli oneri di assistenza. Il progetto viene poi tradotto in azioni a cui connettere obiettivi, i quali ultimi vanno sempre verificati dall’assistente sociale. E’ un lavoro che non si fa “a tavolino”, ma andando ad osservare le persone non autosufficienti ed i loro contesti, i loro bisogni e le aree di “scopertura” che richiedono una presa in carico.
Di tutto ciò e di altro ne parla il mio nuovo libro “la dignità del morire”, edizioni La Meridiana, scritto con altri tre colleghi. E’ un testo che affronta un tema-tabù, come la morte, dal punto di vista degli assistenti sociali. Se volete dargli una guardata, cliccate qui. Se vi interessa la scheda del libro, cliccate invece qua. Se poi volete leggervelo per imparare a lavorare con i non autosufficienti, andate in libreria: ricordatevi che state comprando un libro scritto da colleghi assistenti sociali.
Articolo interessante!
Non si può non condividere i temi e le riflessioni trattati nell’articolo. L’aspetto metodologico nell’interazione con il disagio è fondamentale nel progetto di intervento. Ovviamente un intervento efficace non deve esaurirsi in prestazioni professionali ma andare oltre.
Dr. Michele Galatro
Commento by michele galatro — 7 Maggio 2011 [Permalink]
Molto interessante questo tuo inserto, complimenti mi ha davvero coinvolta!
Commento by Federica — 16 Luglio 2011 [Permalink]