La strategia del microcredito nei Paesi in via di sviluppo (Seconda parte – Le critiche)
Il merito di Yunus è stato quello di riuscire a portare a conoscenza dell’opinione pubblica il problema della povertà nei Pvs e di promuovere il microcredito come lo strumento ideale per risolverlo. Non si può, però, riconoscergli la paternità dell’idea, perché forme di microcredito, a favore delle fasce più povere della popolazione, si erano sviluppate in Europa fin dal 1800. Hermann Schulze-Delitzsche e Friedrich Wilhelm Raiffeisen, infatti, idearono rispettivamente, tra il 1849 e il 1850, le banche popolari e le casse rurali e artigiane, come alternativa agli usurai e per permettere alle categorie produttive di piccole dimensioni di ottenere dei prestiti nella legalità. Le banche popolari, secondo l’idea originale di Schulze, erano costituite solo da soci non abbienti, che dovevano essere sottoscrittori di almeno un’azione per poter ottenere un prestito concesso ad un interesse basso, per somme limitate e con una garanzia unicamente personale. Inoltre, Schulze sottolineò che all’interno della banca doveva vigere un principio di responsabilità illimitata, questo per garantire una selezione accurata nella concessione dei prestiti. Gli utili ricavati sarebbero dovuti essere destinati, per massima parte, a un fondo di riserva. Queste banche ebbero il loro maggior sviluppo all’interno dei centri urbani, diventando poi le banche dei commercianti, degli artigiani e dei professionisti (H. Sculze-Delitzsch, 1874, pp. 16-21). Le casse rurali, ideate da Raiffeisen, erano destinate, invece, a clienti agricoltori e quindi si svilupparono principalmente nei centri agricoli. Il compito delle casse era quello di «migliorare la condizione dei loro soci in senso morale e materiale, prendendo le iniziative a ciò necessarie, in particolare procurando i mezzi finanziari occorrenti per i prestiti ai soci con garanzia comune, oltre a dare la possibilità di investire in modo redditizio il denaro giacente». Il denaro, infatti, non è il fine a cui le persone mirano, ma diventa il mezzo essenziale per poter raggiungere il fine (F. W. Raiffeisen, 1975, pp. 21-27).
Il microcredito, pertanto, è una metodologia che trova le sue radici nel passato, ma ciò che attualmente attira l’interesse di molti studiosi sono gli effetti futuri che ne possono o meno derivare. Alberto Sciortino, un famoso politologo ed economista italiano, nonché responsabile dei progetti di sviluppo economico in vari Paesi africani per il CISS (Cooperazione internazionale Sud Sud), ONG con sede a Palermo, ha svolto un’inchiesta sull’autosostenibilità del microcredito. Ha analizzato inizialmente le modalità attraverso le quali il microcredito possa riuscire ad autofinanziarsi per perdurare nel tempo, senza l’immissione di donazioni esterne. I tassi di interesse da corrispondere, infatti, dopo aver ottenuto il prestito, sono molto alti e molto spesso superano anche quelli delle banche commerciali. Inoltre, i tassi effettivi sono di gran lunga maggiori di quelli dichiarati, date le spese elevate, che devono essere sostenute per mantenere attivo il sistema, e che incidono, a loro volta, sugli interessi da restituire. Gli alti costi sono legati al fatto che la maggior parte dei progetti di microcredito sono destinati a zone in cui i collegamenti e gli altri servizi non sono presenti, motivi per cui spesso le banche ordinarie evitano anche di aprire loro filiali. Per cui c’è una tendenza generale, secondo questo studioso, a privilegiare quelle microimprese economiche che danno più affidamento, correndo il rischio di far diventare questi interventi a favore sempre e solo di una classe sociale, sviando l’obiettivo principe che è quello di raggiungere la maggioranza dei poveri. Sciortino ha anche sottolineato come si stia sviluppando una tendenza nella programmazione dei progetti di sviluppo a separare le iniziative finanziarie (microcredito), dalle iniziative sociali e formative. Queste ultime, infatti, avendo un termine ben definito, permettono di coprire i costi con i finanziamenti ottenuti dai donatori, al contrario delle prime che richiedono un impiego di risorse maggiore per un periodo molto più lungo. La sua analisi si conclude lanciando una riflessione sul «perché le istituzioni finanziarie informali dovrebbero riuscire laddove non riescono quelle formali», visto che neanche le banche ordinarie riescono a vivere dei profitti ricavati dal differenziale dei tassi sui prestiti e sui depositi, ma devono, per forza di cose, investire i loro capitali all’esterno (A. Sciortino, 2002, in http://terrelibere.org).
La prospettiva del microcredito come meccanismo per creare guadagni è stata presentata anche dallo stesso Yunus, dando rilievo al fatto che i poveri sono solvibili e che prestando loro del denaro in un’ottica commerciale, si può ricavarne un profitto (M. Yunus, 2000, p. 31). È stato su queste parole che Jean Loupe Motchane (docente all’Università francese Denis-Diderot), in un suo articolo pubblicato su Le Monde Diplomatique, ha sottolineato il passaggio di come tutti gli istituti di microcredito, essendo inizialmente associazioni senza scopo di lucro, si sostenevano grazie alle donazioni e alle sovvenzioni, ma che per far perdurare la loro attività, si sono dovuti autofinanziare. Lo scopo è, quindi, il profitto? Secondo Motchane la grande scoperta di questi ultimi anni è proprio il microcredito come fonte di profitti. Le banche ordinarie non riescono ancora a capire, secondo lui, che i poveri costituiscono un mercato in pieno sviluppo, la cui redditività è garantita, ignorando anche un argomento pubblicitario politicamente correttissimo: “Usare il capitalismo per fare del bene”. Ha letto, inoltre, la diffusione del microcredito come anche un segnale della sempre più esplicita privatizzazione dell’aiuto pubblico allo sviluppo favorita e approvata dalle istituzioni nazionali e internazionali per deresponsabilizzarsi.
Il processo, ormai avviato, di ‘bancarizzazione’ del microcredito è stato fortemente criticato da Serge Latouche (docente universitario a Parigi ed esperto di rapporti economici e culturali Nord/Sud, è una delle figure più significative dell’odierno impegno per i diritti dell’umanità), in quanto egli è convinto che esso sia destinato al fallimento proprio per la perdita che ne scaturirà dei suoi valori originari (solidarietà, senso dell’altro, conoscenza reciproca, mutualità…). La sua applicazione, secondo lo studioso, è stata efficace lì dove i contesti culturali, sociali, economici e politici lo hanno permesso, ma sottolinea come non si possa riconoscere in esso la soluzione al problema della povertà. L’entusiasmo per i risultati ottenuti dal microcredito è stato seguito, dunque, da notevoli critiche, ma soprattutto da una lettura più pragmatica dei suoi effetti. Anche la Chiesa, il 27 febbraio 2006, nella sede del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, ha organizzato la Conferenza internazionale di studio su “Microcredito e lotta alla povertà” per realizzare un’adeguata accumulazione di conoscenze su tale argomento e approfondirne in particolare le prospettive etiche. Il cardinale Renato Martino, presidente del suddetto Pontificio Consiglio, ha sostenuto che «nessuno, infatti, deve coltivare l’illusione miracolistica che il microcredito sia in grado di risolvere tutti i problemi come ci fa credere qualche enfatica fonte (…) forse interessata a fare affari sulle pelle dei poveri», continuando che «il microcredito va concepito come uno strumento finanziario che deve funzionare per favorire l’inserimento dei poveri in virtuosi processi di sviluppo, caratterizzati da una cultura della partecipazione e dell’esperienza solidale di protagonismo dei poveri stessi nel dare riposte adeguate ai loro problemi» (articolo del 28 febbraio 2006 pubblicato su http://zenit.org/italian/). Le idee di P. Sainath (autorevole giornalista dell’India sul tema della povertà rurale) approvano quelle del Vaticano e di molti altri studiosi, sul non esaltare eccessivamente lo strumento del microcredito perché nessuno è stato mai liberato attraverso il proprio indebitamento. Anche lui, sottolinea come oggi la Banca Mondiale ed il Fondo Monetario Internazionale, insieme alle istituzioni statali e alle banche commerciali stiano puntando sulla microfinanza. Non denigra il meccanismo in sé, ma le modalità con cui esso può essere raggirato o utilizzato.
Il microcredito risulta essere oggi uno strumento che solleva molte persone dal loro stato di povertà, ma che nel contempo vede infettare i suoi meccanismi interni da interessi prettamente utilitaristici, che tendono ormai a sorpassare l’approccio delle capacità. Come ogni grande cosa è, dunque, soggetta a molti rischi e a molte critiche, si spera solo che possa continuare anche se in parte a dare fiducia e sostegno a quelle fasce di popolazione che altrimenti verrebbero dimenticate, anche se con interventi celati da fini non più filantropici.
BIBLIOGRAFIA
Art. 1, comma I, General Assembly Resolution 41/128, Declaration on the Right to Development, 4 dicembre 1986.
BALES K., I nuovi schiavi, Milano, Feltrinelli, 2000.
RAIFFEISEN F. W., Le casse sociali di credito, ed. it. a cura di C. Centrella, Roma, Ecra, 1975, pp. 21-27.
MOTCHANE J. L., Il microcredito, alibi per privatizzare l’aiuto allo sviluppo. Quando i poveri seducono le banche, in Le Monde Diplomatique, Aprile 1999.
SCIORTINO A., Riflessioni. Le mille incognite del Microcredito, Aprile 2002, in http://terrelibere.org/counter.php?file=microcredito.htm&riga=99.
SEN A. K., La diseguaglianza. Un riesame critico, ed. it. a cura di A. Balestrino e G.M. Mazzanti, Bologna, Il Mulino, 2000, p. 156.
VIGANÒ F. Movimento cooperativo o rendiconto delle banche popolari tedesche del 31 dicembre 1872 di Sculze-Delitzsch e di 133 banche popolari italiane del 31 dicembre 1873, Milano, Libreria editrice Brigola, 1874.
YUNUS M., Il Banchiere dei poveri, ed. it. a cura di E. Dornetti, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 212.
SITOGRAFIA
http://nobelprize.org.
http://zenit.org/italian
http://it.wikipedia.org
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