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Diventare adulti: una ricerca possibile (prima parte)

Il titolo della serata “diventare adulti”, è sintesi particolarmente riuscita perché esprime, con due sole parole, il vincolante dinamismo che connota il nostro crescere orientato al diventare adulti. Perché non basta esserlo anagraficamente, ma bisogna diventarlo per poi restare dentro questo movimento con coerenza ed elasticità. E’ un concetto molto forte. Abitualmente tendiamo ad isolare segmenti generazionali: i giovani con i giovani, gli adulti con gli adulti, gli anziani con gli anziani, ma anche ad irrigidirci: chi è adulto è adulto, chi è ragazzo è ragazzo. Salvo poi scoprire l’innescarsi di cortocircuiti che ci disorientano, il quaranta – cinquantenne rivive dinamiche adolescenziali a volte peggiori di quando aveva quindici anni (e deve riscegliere le modalità adulte del suo essere e del suo fare). Abbiamo dei sedicenni che oggi sono molto più maturi dei venticinquenni, ma avranno, negli anni successivi, in un processo ad essi stessi ignoto, modalità acerbe di gestire la giovinezza adulta. Per aiutarci a meglio comprendere che cosa significhi essere adulti, va sottolineato un primo dato (ed è forse un aspetto liberante): nessuno di noi è perfettamente adulto.

Essere adulti credo voglia dire accettare un cammino che ci permetta, nella quotidianità, nella fatica e nelle doverose incoerenze, di convivere all’interno di questa tensione.

Convivere non coincide con il perdonarsi le cose con eccessiva facilità… o assumere una rigidità che no riesce a perdonarsi nulla, che si confronta con un ideale che è davvero non solo astratto, ma anche sterile.

Convivere dentro questa tensione è scelta di STARE con se stessi (e con gli altri) con la libertà di chi accoglie la propria relativa maturità con affettività e serietà. Quante volte i ragazzi mi dicono: “Guido, ma perché i genitori ci fanno sempre le stesse domande? Come è andata, hai mangiato, cosa hai fatto…” Sono i ragazzi che impiegano due ore a descrivere il percorso da casa a scuola con i compagni e che poi esauriscono l’interrogatorio dei genitori sulla gita di cinque giorni a Vienna con un “bene”. Sono ragazzi che spesso si sentono distanti. Sono ragazzi che cercano le domande vere del loro crescere senza incontrare le parole adatte perché questi interrogativi vengano formulati: “Ma tu ti piaci? Ma tu, sarai mica invidioso di tuo fratello? Sai che stai perdendo un mucchio di tempo a competere con lui? Ti sta mica venendo il sospetto che papà voglia più bene a lui piuttosto che a te…” e provate a pensare, alla luce della vostra esperienza quanto tempo rubano queste dinamiche… e se non lo rubano lo hanno rubato.

Quante volte la nostra vita è segnata da conflitti competitivi adolescenziali.

All’interno delle nostre comunità terapeutiche alcuni ragazzi ci dicono: “io non riuscivo a fare il primo, per questo ho provato a fare bene l’ultimo. Ho dimostrato a mia mamma che siccome la figlia brava, perfetta, studiosa, diligente c’era già, forse per me restava un posto da prendere: l’ultimo.” e quando si impegnano i nostri ragazzi l’ultimo lo sanno fare anche benino.

Diventa importante in queste riflessioni, diventare capaci – in ogni relazione – di rivisitare i propri processi di crescita per una condivisione del proprio cammino con la consapevolezza che l’adultità è tensione valoriale terminale, è punto d’arrivo, non punto di partenza. Attenzione che molte volte noi rischiamo di chieder ai nostri ragazzi, in virtù di chissà quale sintesi, di essere eccessivamente adulti in quanto ragazzi.

Con libertà: chi di noi ha capito i suoi genitori a quindici, diciotto, ventidue anni? Chi di noi a diciannove anni ha capito il senso simbolico del generare, la dimensione simbolica del tagliare il cordone ombelicale, la fatica del distacco, la gioia della paternità e della maternità. A volte mi fermo a riflettere e mi domando: “ma cosa chiediamo a chi cresce?” Quale immagine di adulto abbiamo? Alla luce allora di queste riflessioni un primo punto che mi permetto di sottolineare è: se il diventare adulti è una tensione, forse ci deve porre alcune domande che in qualche modo indagano sulla nostra autobiografia. Su questo primo punto, gli interrogativi che emergono, molto serenamente, sono: chi ci riconcilia con la nostra autobiografia? Chi ci ha insegnato a raccontarla, non sempre e non solo agli altri, ma anche e prima di tutto a noi stessi?

Raccontare la propria autobiografia, la propria storia, è un percorso liberante! A volte permette di ritrovare le stesse tortuosità di chi vive accanto a noi, le stesse aspettative, le stesse incertezze e permette una condivisione vera anche se, per fortuna non sempre esplicita.

I ragazzi che ci incontrano, tra l’altro, non vogliono sapere tutta la nostra vita: a loro basta sentirsi capiti. E non vogliono nemmeno la curiosità morbosa di chi li interroga su un “provato” che poi, per mille ragioni, non si riesce magari a reggere.

Diventare adulti vuol dire rileggersi, raccontarsi, riconciliarsi: vuol dire stare dentro questa tensione. Con attenzione alla troppa rigidità e severità o al troppo permissivismo che sono le due facce della stessa medaglia di chi sta soltanto parlando con se stesso rendendosi incapace di ascoltare e di incontrare l’altro, più giovane, che sta crescendo.

L’adulto è colui che sa incontrare se stesso e l’altro.

All’interno della rivelazione cristiana, l’adulto per eccellenza è uno è uno solo: l’umanità del verbo fatta carne. Tutto il resto dell’umanità si confronta per un continuo riconciliarsi e ritrovarsi, educandosi ad un incontro che libera e proprio perché libera restituisce umanità.

Era umanità adulta anche quella di Pietro, di chi stragiura che non rinnegherà mai e che si ritrova così fragile da dire per ben tre volte: “Io lui non lo conosco”.

Credo che ognuno di noi, nella propria biografia debba ritrovare questa tensione, non per perdonarsi ipocritamente fragilità eccessive, ma per non rompersi sotto i pesi di rigidità disumane, che non umanizzano la vita. Questo primo punto costituisce una premessa che ci consente di proseguire. Seguiamo, quali riferimenti guida per il nostro cammino, cinque indicatori direzionali, cinque indicatori valoriali. L’indicatore direzionale è un punto d’arrivo e non un punto di partenza. Ciascuno di noi è in tensione verso questo, ma se per un cortocircuito, che accade più spesso di quanto si creda, scambiamo ciò che è meta con il punto di partenza, rischiamo di rimanere tutti schiacciati, incapaci di muoverci.

Quando si parla di valori, a livello educativo, non mi riferisco al ritornello ricorrente del “trasmettere” valori e ideali “forti”. Spesso sentiamo dire che “oggi non ci sono più valori”, “non si trasmettono più valori” ecc. ecc… Se c’è un’acquisizione che ha segnato il mio bagaglio culturale, è questa: i valori non si trasmettono ed è una fortuna che sia così i valori si testimoniano. Troppe volte ho visto dei genitori chiedere il rispetto dell’altro picchiando moglie, figli e/o vicini… Ho incontrato gente che predica la non violenza alzando ogni minuto le mani. Ho trovato gente, che rifiuta l’acquisto anche di un solo giornale, esigere dai figli amore per la lettura. In una casa dove non si legge mai e l’acquisto di un solo giornale viene rimproverato come spreco, sarà difficile educare alla lettura (al massimo si può ottenere una ripicca maniacale di chi legge in modo non più equilibrato).

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