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Fare l’assistente sociale all’estero (II parte)

 L’abilitazione. La prima cosa da fare, prima ancora di lasciare l’Italia, è informarsi sulle prassi – e se possibile iniziarle già da noi – di riconoscimento del titolo. Ciò è il principale presupposto del nostro progetto migratorio: “andare a fare l’assistente sociale all’estero” e non andare allo sbaraglio alla ricerca delle nostre illusioni. Informatevi prima tramite le Ambasciate di quei Paesi in Italia – o tramite i nostri Consolati all’estero – sulle procedure ed avviatele. Ci sono già delle strade facilitate nell’ambito U.E., ma occorre arrivare “all’ufficio giusto e con le carte giuste”: ogni Paese infatti disciplina il sistema di riconoscimento dei titoli esteri, ma con precise regole. Effettuiamo per tempo le traduzioni giurate dei nostri titoli, interloquiamo per tempo con i Consolati per le necessarie “dichiarazioni di valore”, procuriamoci cioè ben prima presso il Ministero competente in quel Paese la “lista dei documenti necessari”. Probabilmente occorrerà dare qualche esame o svolgere un tirocinio, armiamoci quindi di santa pazienza e mettiamoci con le carte in regola. Il presupposto di tutto ciò è, logicamente, “voler lavorare come assistente sociale” e non “tentare una generica esperienza”.

 Calcolare la distanza. Scegliere di andare a vivere in Svizzera o in Germania non è la stessa cosa che trasferirsi in Australia o in Argentina. Molto dipende dal carattere personale, ma dal punto di vista del legame con la madrepatria può incidere la distanza da casa: coprire il tragitto di ritorno alla città di origine con un’ora di volo anziché ventiquattro ore può fare la differenza nel favorire o meno la serenità e la tranquillità. La distanza è inoltre uno strumento che può facilitare l’effettiva integrazione nel Paese estero: se si vuol chiudere definitivamente con l’Italia, andarsene il più lontano possibile può essere la scelta giusta: preferite quindi l’Australia o il Canada. Se invece la nostra (non facile) integrazione nel Paese ospitante richiede fughe compensative in Italia, ecco che invece converrà restare in Europa, con mensili rientri nel weekend dalla propria famiglia (soldi di viaggio permettendo).

Gli aspetti pratici del soggiorno. Si tratta di aspetti importanti da considerare, legati allo status di straniero: una cosa è vivere da turista, ben altra cosa da lavoratore in cerca di occupazione. Prima di tutto va regolarizzato il soggiorno tramite l’Autorità di ordine pubblico, è necessario quindi avere un titolo di soggiorno per ottenere il quale si dovranno giustificare fondati motivi (studio o lavoro) e redditi certi (da rimesse dalla madrepatria o da attività economica). Ci sono poi le garanzie sociali: per esempio le prestazioni sanitarie, che dovranno dipendere da adeguate assicurazioni sottoscritte. Si tratta di aspetti a cui soprattutto i più giovani di solito non prestano la dovuta attenzione, specialmente in funzione del ricongiungimento dei contributi pensionistici (occorre pertanto prima assicurarsi dell’esistenza di accordi internazionali tra l’Italia e quel Paese). Altra questione è il cambio valuta, fortemente determinante per sopravvivere se il canale finanziario è dall’Italia. I costi di vita (se si pensa al cibo, alla casa, alle utenze) spesso spingono molti al rientro se, proprio per le condizioni di valuta, il quadro appare insostenibile. Alcuni studi calcolano che in media occorre mezzo anno ad uno straniero per stabilizzarsi e potersi ambientare, espletare tutte le prassi burocratiche, ma anche conoscere la città e il sistema di trasporto, il quartiere in cui si abita, per individuare ad esempio il supermercato di fiducia, la posta più vicina, le sedi dei vari uffici di cui si ha bisogno, eccetera. Anche il clima gioca un ruolo importante e può influire non poco sull’umore: noi che veniamo dal Belpaese baciato dal sole facciamo fatica a vivere in Paesi più umidi, più bui e quindi con persone socialmente abituate a “stare al chiuso”.

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