Capitale sociale e rete nel welfare
Che cosa è una «vera» rete nel campo del welfare? È tale una rete che attivi fiducia e spirito di reciprocità (quindi capitale sociale), affinché vi sia un’attenzione vera all’uomo.
Con ciò evochiamo indirettamente la possibilità opposta, vale a dire che il «fare rete» possa essere anche un esercizio contrario: un freddo e impersonale ri-arrangiamento di legami, uno sforzo ingegneristico dove l’attenzione all’uomo risulta falsa. Sbagliare a fare la rete significa in pratica contraddire il principio di sussidiarietà, così tanto invocato a parole ma spesso malinteso.
L’umano che ricerchiamo nel lavoro sociale richiede che le persone interessate a un aiuto ufficiale, anche se immerse nelle difficoltà, continuino a essere concepite come persone, e quindi abbiano il potere di interloquire nel processo di aiuto secondo i codici costitutivi della propria umanità. La persona deve essere considerata sempre come interlocutrice e collaboratrice. In questo modo noi usciamo dal determinismo ed entriamo in una dimensione relazionale autentica. È dalla relazione, dall’incontrarsi delle persone, che nasce il bene: il recupero, l’aiuto, la terapia, ecc. Nel quadro convenzionale di un intervento di aiuto classico, nella psicoterapia ad esempio, si dà per scontato che il potere di sanare sia del terapeuta. Dal canto suo, il paziente è invece sentito (se non concettualizzato) come uno sventurato che è incappato a un certo punto nelle difficoltà, dalle quali non riesce a cavarsela, ma che tuttavia ha una «fortuna»: quella di trovare sul suo cammino uno specialista valido. Ora, enfatizzare i meriti dei terapeuti è un modo ovvio di pensare all’aiuto, ma non è un modo «umano», e neppure orientato al concetto di sussidiarietà.
Un vero esperto nella logica sociale dell’aiuto interagisce alla pari con i propri interlocutori e nel contempo ha cura che l’interazione con loro sia piena. Si adopera quindi affinché tutti i soggetti coinvolti possano lavorare al medesimo progetto di aiuto congiuntamente. In una relazione di aiuto così intesa troviamo una sussidiarietà di alto profilo. Non una sussidiarietà come semplice accorgimento che l’istanza inferiore (sic!) non venga impedita nel suo agire da un’istanza superiore, capace di fare meglio la stessa cosa. Nella relazione di aiuto improntata a una logica sociale noi vediamo che, qualora il presunto essere inferiore non sappia agire, il superiore non interviene a supplenza (al posto dell’altro), bensì si adopera affinché vi sia maggiore interazione e dall’interazione nasca reciproca forza. La sussidiarietà semplice riconosce una priorità a carico dell’istanza inferiore. Solo qualora questa non possa agire, ammette l’intervento dell’istanza superiore.
In realtà qui, a rigore, non si vede relazione. Vediamo l’agire isolato o dell’uno o dell’altro soggetto, della parte «bassa» oppure di quella «alta». La sussidiarietà profonda (relazionale) riconosce invece che ciascuno dei due soggetti sussidia l’altro nella relazione, ciascuno è soggetto pieno in un’interazione che potenzia entrambi reciprocamente.
Volendo dare la giusta attenzione alla persona sofferente, dobbiamo considerare in primo luogo il suo insopprimibile diritto umano a dirigere la propria vita, anche nel caso in cui essa risulti «fallita» o quasi (l’uomo, rispetto a un animale qualsiasi, è tale in quanto riesce a dirigere il proprio vivere e orientarlo secondo intenzione). Per quanto grave sia la difficoltà oggettiva in cui una persona si trova, fuoriuscire da questa difficoltà è per definizione un processo di intensa umanità, non un fatto tecnico. Ogni soggetto cambia mentre vive la sua vita, cioè mentre esercita l’arte di essere l’uomo quale è, pur volendo divenire altro. L’uomo non può essere cambiato da un oggettivo tecnicismo, affinché viva poi di punto in bianco una vita diversa, che si ritrovi improvvisamente appiccicata addosso — chissà come — alla fine di un procedimento di aiuto.
L’idea della rete riconosce che la vita di ogni singolo soggetto è intersecata a quella di altri, al vivere comune di persone che hanno sofferenze e speranze condivise. È questa rete di vita capace di auto-riflessione che la teoria relazionale vede a fondamento del welfare. Una «rete di fronteggiamento» che non può, né ambisce, a procedere esatta, ma a essere sensata.
Focalizziamo la fiducia tra esseri umani (il capitale sociale) come cruciale per il welfare.
Enfatizziamo la fiducia sempre, anche quando essa in tutta evidenza non c’è o appare insufficiente. Sappiamo fin troppo bene che il disagio sociale e la sofferenza umana scaturiscono sempre dalla mancanza di fiducia e di reciprocità, cioè dalla miseria — per così dire —delle relazioni sociali. Ma è la fiducia residua tra le persone nella rete che le porta a utilizzare al meglio le loro capacità riflessive e a «ragionare» le loro esperienze di recupero, senza trovarsi in soggezione o essere manipolate, anche mentre sono curate, o accudite, o trattate. Senza la fiducia che consente di aprirsi in una relazione riflessiva non c’è crescita del benessere, come senza lievito non c’è pane.
(FONTE: rivista “Lavoro Sociale”, vol. 8, n.1)
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