Fare l’assistente sociale all’estero (III parte)
L’esperienza della solitudine. Andare all’estero significa cambiare tante abitudini, ma un’esperienza trasversale che segnalo come probabile è la solitudine. Sia il professore universitario, sia la ragazza alla pari, si trovano entrambi a vivere un brusco passaggio da un quotidiano pieno di relazioni – quale è lo standard italico – ad un diverso modo di relazionarsi, generalmente meno spontaneo. Gioco-forza, per via delle esigenze giornaliere (fare la spesa, cucinare, rassettare la casa) e dell’assenza della propria famiglia, ci si trova a stare da soli. A volte si tratta di effettuare una scelta deliberata, quella di “staccarsi dall’ambiente”, per esempio per ricollegarsi alla propria cultura leggendo in italiano o curando i contatti. Per chi parte con famiglia e figli l’impatto è di sicuro più dolce e mitigato, ma per chi parte e va a vivere da solo il rientro a casa alla sera può davvero rappresentare il momento più difficile della giornata. Non avere nessuno per scambiare due chiacchiere o prendere un caffè al bar né con cui uscire il sabato sera o trascorrere la domenica, sono tutte esperienze che possono creare sconforto ed isolamento; in questo caso reagite, uscite e createvi una rete: noi assistenti sociali sappiamo come si fa! Passato il momento di sconforto (e di una normale crisi di pianto) occorrerà rimboccarsi le maniche e pensare che comunque le amicizie non tarderanno ad arrivare. In molte città i musei sono aperti la domenica, ci sono parchi bellissimi in cui andare a fare una passeggiata. Per aumentare le probabilità di conoscere gente ci si può iscrivere in palestra o a un corso di ballo, si può frequentare una parrocchia o un circolo culturale, ci si può offrire per lezioni di italiano ai locali, ma è sempre importante conoscere la cultura e le abitudini del posto per capire “come” la gente del luogo socializza.
Aiutare all’estero. Andare a svolgere la professione di assistente sociale all’estero richiede un “riaggiustamento antropologico” non facile, ma assai salutare, a mio avviso, a chi è sempre vissuto in Italia. Nel nostro Paese siamo infatti abituati – nonchè (ahimè) formati – ad un lavoro di aiuto “asimmetrico”, in cui assistente sociale ed interlocutore sono su piani di potere diversi: il primo è più forte, più ricco, più sapiente del secondo, e le capacità linguistiche e culturali possedute dal primo ancorpiù rafforzano lo status di bisogno del secondo. Andare a lavorare all’estero significa invece spogliarsi di questo, e ciò per motivi intrinseci: il “potere cultural-linguistico” è perso se si è stranieri. La prima cosa da fare è quindi quella di prendere consapevolezza di ciò e lavorare a che la propria legittimazione passi tramite le competenze e non attraverso le appartenenze. Anche in progetti di cooperazione internazionale o protezione civile inviterei a dimenticare le dimensioni culturali del “buonismo borghese” (…”il ricco-bravo-buono che va in Africa ad aiutare i negretti…”) e a guadagnare un approccio “alla pari”, non foss’altro perché si è a casa altrui. L’essere un helper o un caregiver straniero significa ad ogni caso conoscere, accettare e padroneggiare la cultura del luogo: d’altra parte si è a servizio del welfare locale, lo stesso welfare che, per abilitarci, pretende da noi certi standard operativi. E’ inoltre richiesto uno sforzo cognitivo non da poco: la conoscenza degli Ordinamenti e delle prassi burocratiche, nonché la padronanza di pratiche metodologiche riconoscibili in quel Paese, sono tutti aspetti dovuti. La nostra “italianità” può semmai essere uno stile personale, anche apprezzato, ma gli schemi operativi devono essere quelli del luogo. E’ una questione di rispetto verso noi stessi, verso il Paese che ci ospita e verso le persone che a noi si affideranno. Attenzione inoltre a cosa si intende per “assistente sociale” in quel Paese, o meglio, secondo quali modelli i colleghi indigeni si muovono. Se da noi prevale il “burocrate” (perché in maggioranza si è dipendenti pubblici), in altri Paesi i colleghi hanno più imprinting, tra il terapeuta e l’educatore. “Essere a servizio” in altri Paesi significa cioè ben altro da cosa noi siamo abituati a fare, ciò riguarda quindi sia il modo con cui ci relazioniamo, sia quello con cui ci vestiamo: coprirsi la testa con il velo nei Paesi islamici o abituarsi al nudismo nei Paesi scandinavi sono semplici esempi tramite i quali siamo invitati non solo ad “adattarci”, ma pure a lavorare sugli schemi personali, di chiara origine italica. Servizio sociale è pure questo!
Nessun commento Leave a comment »
No comments yet.
Leave a comment